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  • Immagine del redattoreAndrea Tornese | Collaboratore

Frédéric Back: il valore di un'azione lenta e costante

Fra i grandi nomi del passato, quello di Frédéric Back è senza dubbio uno dei meno altisonanti. Eppure, Back è stato uno degli animatori più influenti di sempre, essenziale quanto incisivo nel suo tratto al punto da spingere due come Isao Takahata e Hayao Miyazaki, una volta visti alcuni dei lavori dell'animatore canadese (di origine francese), a rivedere le loro priorità: come raccontato dallo stesso Miyazaki [1], dopo aver visto Crac! (1981) a una proiezione doppia negli Stati Uniti, l'animatore giapponese guardò Isao Takahata e gli disse: «A quanto pare io e te siamo dei falliti.» Nonostante l'apprezzamento e il riconoscimento di molti colleghi, Back non sfondò mai presso il grande pubblico, forse a causa di un'animazione tanto ambiziosa quanto atipica, proprio come atipica fu la sua parabola nel settore animato.


Dopo una carriera come illustratore e come docente, Back arriva all'animazione vera e propria nel 1970, all'età di 46 anni, quando crea il suo primo cortometraggio, Abracadabra (1970). Quello che colpisce da subito è l'estro tecnico, a discapito dei mezzi limitati e del fatto che Back animi i suoi lavori interamente da solo, disegno dopo disegno - un modus operandi cui terrà fede per tutta la sua carriera, a esclusione di alcuni lavori più complessi della fase più avanzata nei quali verrà aiutato da un intercalatore. Nonostante il risultato grezzo, con Abracadabra Back stabilisce alcuni dei temi a lui più cari, trattati con una linearità che, ben lontana dall'essere un limite tecnico e narrativo, diventa invece la colonna portante del suo messaggio.



Frédéric Back | Daelar Animation
Frédéric Back | © Le Devoir


Nel racconto dell'incrocio di una bambina con altre persone e altre civiltà risuonano i temi antichi del contatto e della scoperta, trattati come viatico per l'accesso alla maturità. Ma il corto, intriso di un'atmosfera distesa e quasi scanzonata, è un gioco delle parti più che una fiaba della buonanotte e, per raggiungere questo obiettivo, Back si fa aiutare dal suo pezzo forte: l'uso narrativo della tecnica. Quello che colpisce nell'animazione dell'artista, sin dagli albori, è il fatto che riesca a far leva sui limiti espressivi per mettere in pratica una sorta di gioco fra autore e spettatore, fra opera e fruitore. Nel caso di Abracadabra, questo avviene per esempio quando Back si ritrova a dovere animare il viso dei suoi personaggi: anziché muovere l'intero volto, il regista preferisce spostare i connotati all'interno della cornice del viso. Il risultato è dunque un naturalismo che nega se stesso. Crediamo a quello che avviene e che muovere bocca, naso e occhi ripetutamente a destra e a sinistra tenendo il viso fermo equivalga a un "no", ma per farlo dobbiamo mettere in atto per un istante la nostra credulità. Un esempio ancora più evidente avviene quando Back deve animare un leone. Anche in questo caso, l'animatore sceglie di muovere l'intero volto dell'animale come se fosse una propaggine del suo corpo e richiamando, per resa scenica ed effetto retorico, i fasti della cut-out animation. Ma in Abracadabra, Back dà il meglio di sé nella scena del temporale, in cui iniziamo a intravedere gli esiti caleidoscopici della sua arte.



Frédéric Back | Daelar Animation
© Frédéric Back | © Société Radio‑Canada


L'azione della natura offre all'animatore canadese la possibilità di cominciare quel gioco libero con il disegno - che diventerà poi il tratto saliente del suo lavoro in fasi più avanzate della carriera - che qui gli consente di mettere in pratica i mille volti della sua animazione: ai colori accesi e netti si sostituiscono le mille sfumature del mare; alla piattezza si sostituisce la rotondità, accentuata dalle increspature delle onde animate in più piani di profondità di campo; i profili dei protagonisti lasciano il posto alle loro silhouettes, mentre da destra a sinistra e da sinistra a destra scorrono fogli di carta bucherellata che contribuiscono a restituire lo stesso senso di oppressione fornito dalla tempesta. Alla fine, tuttavia, arriva la risoluzione. Mentre i bambini danzano per la fine della pioggia, sui cieli del mondo torna a splendere il sereno, adornato da uno dei simboli visivi che torneranno più frequenti in Back: l'arcobaleno. L'anno successivo, l'artista crea il corto Inon ou la Conquête du Feu (1971). Il film inizia lì dove Abracadabra si era fermato. La tempesta ci proietta all'interno di un tempo atavico, mentre la voce fuori campo ci introduce agli esseri umani e alla loro condizione d'origine. Il racconto, calato nella tradizione algonchina, si tinge di note mitiche grazie al suo impianto narrativo - è infatti il dio Inon a tenere il tempo della condizione umana - e soprattutto grazie alla tecnica più rude di Back: se, in Abracadabra, la tempesta era un gioco di luci e di colori, in Inon diventa l'occasione per giocare di negativo e di frame d'impatto, in una sequenza che sembra tornare all'antico rito del racconto orale.



Frédéric Back | Daelar Animation
© Frédéric Back | © Société Radio‑Canada


È, tuttavia, di nuovo lo scorrere del tempo a scandire il senso dell'esistenza dei primissimi uomini, sino a che il mutamento li porta all'unione con i loro simili, quando per la prima volta, "in quel tempo lontano, gli uomini e gli animali si comprendevano". Gli animali si avventurano così sulla montagna, alla propria conquista dell'arte mancante del fuoco e, dopo una fuga disperata, la loro riconquista porta alla danza finale degli uomini attorno alle fiamme, in un rito di celebrazione e di comunione. In Inon, a colpire è anche l'uso della musica: il corto alterna le sonorità dolci delle fasi di stampo cosmogonico ai ritmi sincopati durante la fuga per la conquista del fuoco; l'effetto risulta un esercizio di stile che si traduce al contempo in favola e in ricostruzione di una tradizione - quella degli Algonchini - che Back anima con uno stile ancora più grezzo. Del medesimo stampo mitico è anche il successivo La Création des Oiseaux (1972), corto in cui Back continua a rappresentare la tradizione dei nativi con occhio incantato, ma al di fuori di alcune trovate di stile particolarmente riuscite - il soffio del vento che tramuta le foglie in mille uccelli colorati è forse l'esempio migliore - la sua tecnica sul foglio da disegno non evolve ulteriormente. Il corto, nonostante sia stilisticamente meno elaborato rispetto al precedente, rimane tuttavia un'occasione per riflettere sul mutamento, sulla trasformazione e sul senso di meraviglia che solo uno sguardo ancora pieno di incantamento può cogliere appieno.


L'artista torna tre anni dopo con il corto Illusion? (1975). Qui, se è possibile notare una continuità tematica col passato (il legame fra uomo e natura è il trait d'union di tutte le sue opere, un legame che Back vede sbilanciato in favore della frugalità), a emergere sono invece la regia e la tecnica.



Frédéric Back | Daelar Animation
© Frédéric Back | © Société Radio‑Canada


Il regista continua a evolvere quel discorso privato con il foglio da disegno, che nella sua testa è un oggetto libero da esplorare da più parti e in più modi, senza infondati limiti pregressi di lettura. È così che, per esempio, Back decide di mostrarci un bruco che scala un albero, ribaltando di 180° la prospettiva dello spettatore durante la salita e ponendolo così nella condizione del bruco stesso mentre osserva il mondo appeso a testa in giù, prima di chiudersi nella sua crisalide. Quello del porci nella prospettiva d'osservazione dell'atipico è un'altra delle qualità che l'animazione di Back spinge ad affinare. Soltanto mutando il nostro sguardo possiamo assumere un'altra visione e un'altra verità sulle stesse cose, quelle che tutti condividiamo nel quotidiano. L'illusione prospettica, ci dice l'artista, è un limite umano da ridiscutere costantemente, e l'esercizio cui siamo chiamati in causa con la sua animazione lo mette in evidenza: un bruco che cammina non è più solo un bruco che cammina, è una prospettiva su un microcosmo e il suo incessante mutare. Illusion? è già però una storia di contrasti. All'atmosfera giocosa e scanzonata e ai pastelli della prima fase del corto, in cui i bambini giocano in libertà all'aria aperta, si sostituisce il grigio macchinico e squadrato della seconda metà, quando un trombettista, messaggero di sventura, porta con sé una scia di lampioni, trasforma gli alberi in antenne di trasmissione e incasella il mondo circostante, dandogli una forma nuova. L'atmosfera di Back rimane fiabesca, ma a emergere è la sua consapevolezza del mezzo: più che un ammonimento didascalico sui limiti dell'agire umano, quella del regista è una grande celebrazione della vita, un tentativo di sensibilizzare chi la sensibilità se la può ancora permettere. Se però in Illusion? la struttura del dittico spezza in due fasi il racconto - con l'arrivo del sole a risolvere il conflitto - a farsi notare è la costanza di regia.



Frédéric Back | Daelar Animation
© Frédéric Back | © Société Radio‑Canada


Oltre a ribaltare il foglio, Back sceglie di esplorarlo da destra a sinistra e viceversa, gli fa fare delle giravolte che creano spire e non pone mai limiti alle possibilità esplorative del nostro occhio.


Dopo Taratata (1977), cortometraggio dove Frédéric Back rappresenta una parata in onore di San Giovanni Battista, patrono della provincia del Québec, e in cui l'immaginazione di un bambino si oppone all'industrializzazione sfrenata di cui la parata è simbolo e ambasciatrice, nel 1978 arriva uno dei suoi lavori più completi sul piano stilistico e su quello contenutistico, Tout-Rien (1978). Back comincia dove solitamente conclude: il sole porta la vita e la vita i colori del mondo, ma ai tempi buoni seguono quelli cattivi, e alle belve sane quelle carestose. Madre Natura, però, fa ripartire il circolo, indisturbato sino alla comparsa dell'uomo. Al Paradiso terrestre si sostituisce, lentamente, il regno degli umani, ma neppure il loro dominio può interrompere la natura di ciclo a cui la terra è destinata, e proprio come in Abracadabra torna a splendere l'arcobaleno. Quello che colpisce in Tout-Rien è però l'evoluzione della regia di Back, che rende l'esperienza della visione sempre più immersiva: la comparsa dell'essere umano come nuovo protagonista narrativo consente al regista di accelerare il ritmo del racconto e di sperimentare soluzioni visive: compaiono i primi match cut e le transizioni si fanno più elaborate e visivamente più ardite. A dominare è ancora il tratto: ogni frame è, letteralmente, un disegno, e così la loro successione offre allo spettatore l'occasione per vivere l'esperienza del grado zero dell'animazione, quello dei "libri sfogliabili" [2].



Frédéric Back | Daelar Animation
© Frédéric Back


Ma in Tout-Rien a dominare è anche la componente puramente visiva. A differenza dell'animazione tradizionale di stampo prevalentemente commerciale, il prodotto da bottega dell'artigiano prevede l'utilizzo di una scelta impossibile da sostenere per le grandi compagnie. L'animatore canadese, disegnando interamente ogni disegno per renderlo un frame a sé stante, aggira la formula tipica che vede l'utilizzo di un background fisso e dei soggetti che poi andranno animati, cosa che nella messinscena finale rende sfondi e soggetti differenti dal punto stilistico. È questo uno degli elementi di maggior influenza che Back eserciterà sui suoi successori. Quando, anni dopo, Isao Takahata - che in passato si era spesso detto infastidito dalla differenza visiva fra sfondi e soggetti - vedrà i lavori di Back, sarà proprio la coerenza visiva di ogni disegno a spingerlo a percorrere la stessa strada [3], cosa che lo porterà a realizzare alcuni suoi lavori, come I Miei Vicini Yamada (1999) e La Storia della Principessa Splendente (2013), seguendone lo stesso principio di fondo, anche a costo di rendere il progetto un'utopia dal punto di vista produttivo. Qualche anno dopo esce uno dei lavori più importanti dell'animatore canadese, Crac! (1981). Back torna a un ribaltamento di prospettiva a lui caro, adottando il punto di vista di una vecchia sedia a dondolo: dopo essere stata fabbricata in un villaggio fra le nevi, la sedia vive mille vite, partecipando a matrimoni e a feste, a balli e a canti, venendo dipinta e trasformata, passando di padrone in padrone senza limiti di età, di gruppo o di genere, e vivendo persino vite fittizie - fra cui il breve momento in cui, cullando un bambino che sta giocando, si trasforma per un istante nel destriero del Napoleone che passa il valico, così come come se lo figurava Jacques-Louis David nel suo celebre dipinto.



Frédéric Back | Daelar Animation
© Frédéric Back


Tutto questo finché non avviene l'inevitabile, e la vecchia sedia a dondolo fa "crac". Nonostante l'improrogabile fine, la costante resta il mutamento: passano i decenni e al villaggio si sostituisce la città, ai bagliori dei fuochi quelli delle luci elettriche. Il mondo è sì diverso, ma nel nuovo tempio cittadino - il Museo di Arte Moderna - c'è ancora posto per un vecchio pezzo di legno. I visitatori si affollano e qualcuno si azzarda persino a sedersi sulla vecchia sedia a dondolo. Poi, quando le luci si spengono e i pezzi di antiquariato vengono lasciati alla loro consueta solitudine, la sedia recupera il suo antico vigore e torna a tingere il locale, riempiendolo dei suoi balli e dei suoi canti. Anche le tele del museo sembrano attingere all'energia della vecchia sedia, e così cominciano a dipingersi di nuovi colori e di mille altri ricordi, ricomponendo un unico quadro che unisce passato e presente. Con Crac!, L'animatore canadese mette in scena un racconto muto ma che si può riempire di fiumi di parole e di idee, fra cui la principale e la più importante, ovvero che c'è tutta una vita dietro ogni cosa, e che per poterla cogliere serve solo interrogarla ancora e ancora [4].


Arrivati i primi anni '80, è ormai evidente che Back sia a tutti gli effetti un maestro dell'animazione mondiale e, infatti, il suo nome non sfugge più neppure ai vertici, che cominciano a riconoscerlo con premi prestigiosi. L'artista però non si fa catturare dalle luci della città e continua il suo lavoro da maestro di bottega.



Frédéric Back | Daelar Animation
© Frédéric Back | © Société Radio‑Canada


Qualche anno dopo arriva il suo lavoro più prezioso e importante, L'Uomo che Piantava Gli Alberi (1987), mediometraggio tratto dall'omonimo racconto dello scrittore e suo connazionale francese Jean Giono. Il corto, recitato da Philippe Noiret nella versione originale e dall'attore Toni Servillo nell'adattamento in italiano, richiede ben cinque anni di lavoro nei quali Back, abituato a lavorare in solitaria, si fa persino aiutare da un intercalatore - sintomo della difficoltà e dell'ambizione del progetto. L'Uomo che Piantava Gli Alberi narra la storia di Elzéard Bouffier, un mite pastore della campagna francese che, del tutto inavvertitamente e senza un vero motivo, decide di piantare dei semi nel terreno della sua regione, ormai spoglia e desolata. L'uomo continua questa operazione incessante con un manierismo e una dedizione unici, fuori tempo massimo per un mondo che corre. Anche mentre lontano infuria la guerra, Elzéard continua nell'accudire la propria operazione lenta, metodica, instancabile. Nessuno gli ha chiesto di farlo, eppure l'uomo sa che la soluzione sta lì, davanti ai suoi occhi, in quel lento lavorio meccanico ma naturale che richiede la cosa più semplice ma più virtuosa di tutte: restituire alla terra i suoi averi e lasciare che il tempo faccia il resto. Seme dopo seme, anno dopo anno, la foresta del protagonista cresce sempre di più, sino a tingere la regione di un vigore che sembrava ormai perduto per sempre. Di fronte agli spettri del passato - l'uomo, si viene a scoprire, ha perduto moglie e figlio - Elzéard Bouffier non si scompone e, con la sua vita, a lento rilascio prima semina e poi raccoglie.



Frédéric Back | Daelar Animation
© Frédéric Back


Le parole conclusive del corto, riprese fedelmente dal racconto di Jean Giono, sono le migliori per descrivere le azioni dell'uomo che per tutta la sua vita non ha fatto che piantare alberi: "Quando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire dal deserto il paese di Canaan, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole." Ne L'Uomo che Piantava Gli Alberi, l'animazione di Back raggiunge la più completa maturità sia stilistica, sia espressiva: ogni fotogramma restituisce la purezza dell'acetato, in una successione di disegni che è anche una successione di grafiti morbide e delicate. La regia, più virtuosa nel Back degli anni precedenti, si fa secca e diretta: a quel vecchio gioco con il foglio ormai si sostituisce la calma delle lente panoramiche che lavorano in funzione del racconto; ma soprattutto, ai sorrisi e alle espressioni giocose dei bambini si sostituisce lo sguardo ruvido e vissuto di Elzéard, un uomo che è durato la sua vita ma che sa bene che, quando un albero cade, la terra è sempre pronta ad accoglierne i semi [5].


L'ultimo lavoro dell'artista arriva sei anni dopo, Le Fleuve au Grandes Eaux (1993). Back narra la storia del fiume San Lorenzo, che attraversa la frontiera fra Stati Uniti e Canada, passando per la Regione dei Grandi Laghi e tagliando in due il Québec prima di terminare nell'Oceano Atlantico.



Frédéric Back | Daelar Animation
© Frédéric Back | © Société Radio‑Canada


Fonte di vita primigenia, il San Lorenzo è il bacino cui Back attinge per ritrarre ancora una volta il mutare incessante della natura. La comparsa dell'uomo, solo l'ultimo arrivato in una terra vergine e brulla, scombussola l'ordine naturale del fiume. "La vita chiama la vita", suggerisce la voce fuori campo, ma l'attività umana pone un freno al ciclo [6]. Alla vita marina e ricca di toni azzurri si sostituisce quella del cantiere navale, tutta imperniata di beige e di colori caldi; al cantiere si sostituisce poi la città, con i neri delle sue architetture e delle sue infrastrutture. Caso quasi unico nella sua produzione, Back fa una rapida incursione nei luoghi della contemporaneità, mostrando l'affastellarsi di umani negli edifici di trading finanziario, quella che evidentemente considerava l'estrema conseguenza dell'interruzione del flusso naturale del fiume cominciata secoli prima. Le Fleuve au Grandes Eaux, oltre che ripercorrere la storia della vita del San Lorenzo, è anche una lunga panoramica sulla seconda casa di Frédéric Back, il Québec, la terra in cui l'artista cominciò la sua carriera da animatore e a cui cerca, attraverso il proprio lavoro, di restituire più di quanto non abbia preso. Il corto, inoltre, può essere definito anche una panoramica in senso puramente cinematografico: come già avvenuto in precedenza, il regista fa scorrere libere le immagini in ogni direzione, attraversando i luoghi e le epoche come uno scorrere irrefrenabile sugli assi orizzontali e verticali dell'immagine. L'ultimo frame dell'opera - e quindi dell'intera carriera di Back - è ancora una volta il sole: non più quello stilizzato del suo Abracadabra o di Inon, ma quasi un'impressione a levarsi sulle acque del San Lorenzo [7].



Frédéric Back | Daelar Animation
© Frédéric Back


Se per Back l'azione dell'uomo è innegabile, è allo stesso tempo vero che la vita richiama sempre la vita, e a questo ciclo nessuno può porre un freno. Con Le Fleuve au Grandes Eaux si chiude la parabola animata dell'artista, ma l'autore canadese continua irriducibile a portare avanti il suo progetto più grande, quello di piantare semi d'albero nella sua terra, un'operazione cominciata nei primi anni '70 e che contava, al 1999, oltre ventiseimila piante. Quando proprio in quell'anno Isao Takahata, ormai amico di lunga data di Back, fece visita all'animatore in Canada durante un viaggio a ritroso sulle tracce dei luoghi della sua Anna dai Capelli Rossi (1979), le parole nei confronti del vecchio amico furono un profluvio di elogi: "È uno degli animatori per i quali provo maggior rispetto" disse Isao Takahata. "Ci sono soltanto un altro paio di animatori che rispetto allo stesso modo". A suggellare la loro amicizia, i due piantarono un albero assieme nelle terre di Back [8]. Proprio come il suo uomo che piantava gli alberi, Back cominciò un'attività lenta e metodica, portata avanti senza sosta per tutta la sua vita, senza un reale obiettivo e senza che nessuno pretendesse nulla dalla sua azione. Ma era la cosa giusta da fare e, per quanto semplice, il suo messaggio - e forse proprio in quanto semplice - e il frutto del suo lavoro rimangono e rimarranno. Inoltre, a rimanere è anche il suo più grande insegnamento: a ogni ipotesi deve poter coincidere un'azione concreta, a ogni disegno deve poter coincidere un piccolo seme piantato nel terreno.


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APPROFONDIMENTI


[1] Miyazaki, Hayao (2009). Starting Point (1979-1996). San Francisco. Viz Media.





[8] Kobayashi, Futoshi (1999). The World, The Journey of My Heart - Traveler: Animation Film Director Isao Takahata. Studio Ghibli. NHK. [Link video assente]

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