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  • Immagine del redattoreIsaia Silvano | Daelar Animation

Hiroyuki Kitakubo: cyberpunk tra distopia e realtà storica

Negli anni '80 sono molti i giovani artisti giapponesi che, trainati dall'entusiasmo planetario nei confronti della fantascienza robotica inventata nel "Paese del Sol Levante", cominciano a lavorare nelle case di produzione più importanti della nazione e a farsi un nome nello spietato ambiente dell'animazione seriale. Hiroyuki Kitakubo risulta sicuramente uno degli animatori di punta di questo periodo, un allievo che nell'intervallo temporale 1987/2000, con alle spalle anni di esperienza sotto il coordinamento di due grandi maestri come Katsuhiro Otomo e Mamoru Oshii, saprà creare una propria dimensione ideale al fine di dirigere film d'animazione estremamente interessanti. La carriera di Kitakubo ne definisce infatti l'importanza. L'artista nasce come membro degli staff tecnici in opere come Mobile Suit Gundam (1979/1980), Lamù (1981/1986), compresi i due lungometraggi di Oshii del 1983 e del 1984, SF Shinseki Lensman (1984), primo film di Yoshiaki Kawajiri, Robotech (1985) e Akira (1988). Nel 1984 dirige un episodio della serie antologica Cream Lemon, uno dei primi OVA (original video animation) mai realizzati e viene scoperto da Otomo, creativo che lo prende sotto la propria ala e che, nel 1987, lo pone come regista del segmento Tale of Two Robots, A di Robot Carnival, assieme a Manie Manie - I Racconti del Labirinto (sempre del 1987) il primo grande lungometraggio antologico/collettivo giapponese.



Robot Carnival | Daelar Animation
© A.P.P.P. Co.


Hiroyuki Kitakubo, dopo aver accumulato un'invidiabile lista di crediti, all'inizio degli anni '90 crea e supervisiona la serie di sei puntate Golden Boy (1995/1996) e la prima mini-serie tratta da Le Bizzarre Avventure di JoJo (1993/2002) per conto degli studios A.P.P.P. Se, in ogni modo, tutti questi lavori possono essere chiaramente intesi come opere svolte su commissione e, dunque, senza alcuna valenza autoriale, il primo mediometraggio diretto nel 1987 dal giovane Kitakubo, Black Magic M-66, risulta invece una piccola chicca creata con elementi peculiari, soprattutto rispetto al fumetto originale prodotto dallo scrittore e mangaka Masamune Shirow (Orion, Ghost In the Shell) nel 1985. L'OVA rappresenta, in assoluto, il primo anime tratto dalle opere del profeta del fumetto cyberpunk giapponese e, sia a livello di trama, sia nella messa in scena adottata dal regista, presenta molti elementi narrativi e, soprattutto, estetici eccessivamente ispirati al capolavoro Terminator (1984) di James Cameron. La natura - anche se non molto originale rispetto ai canoni occidentali - distopica, a tratti thriller e fortemente metropolitana del film incide in maniera indelebile Black Magic M-66 nella storia dell'animazione orientale. Quest'opera, infatti, rappresenta una chiave nello sviluppo della science fiction animata in Giappone, essendo una delle prime opere a distaccarsi completamente dalla space opera alla Leiji Matsumoto (Galaxy Express 999, Capitan Harlock, La Corazzata Yamato) e dal genere mecha inventato da Osamu Tezuka con Astro Boy e, negli anni '70, sviluppato da autori come Go Nagai e Yoshiyuki Tomino.



Black Magic M-66 | Daelar Animation
© Anime International Company, Inc.


La protagonista Sybel, una poco ortodossa giornalista che domina il film per carisma e bellezza, si presenta agli occhi dello spettatore con un nudo integrale mentre corre dalla doccia alla propria scrivania. Il suo impianto radar ha captato dei segnali interessanti provenienti dalla foresta appena fuori città. Nel frattempo, nella stessa giungla dalla quale proviene l'input radio, un convoglio di militari si trova alla ricerca di due cyborg da combattimento fuggiti dalle proprie gabbie di isolamento. L'esercito deve scovarli prima che essi trovino loro, altrimenti sarà un massacro.


Il mediometraggio risulta artisticamente riuscito solo in parte a causa sia del minutaggio dell'opera, ovvero per l'eccessiva condensazione di avvenimenti che avrebbero meritato un maggior approfondimento per definire un buon lavoro a livello narrativo, sia delle tecniche con le quali vengono realizzati il montaggio e le animazioni dell'OVA. Il key frame delle scene, infatti, risulta spesso non scorrevole e, inoltre, si presentano in certi frangenti tagli netti in sequenza che, soprattutto durante il finale, decelerano paurosamente il ritmo del film. Nonostante una tale scarsità tecnica, sono da lodare le atmosfere che comunque riesce a plasmare Kitakubo, regista che, anche se ancora acerbo, dà prova nella direzione dell'opera di avere una padronanza quasi totale del genere thriller fantascientifico riuscendo, per esempio, a rendere gli interni claustrofobici e le scene d'azione avvincenti nonostante un montaggio impreciso e purtroppo approssimativo.


Black Magic M-66 | Daelar Animation
© Anime International Company, Inc.


Katsuhiro Otomo è il più importante e il più visionario autore della corrente cyberpunk giapponese ed è uno dei pochi artisti che ha saputo rivoluzionare più campi dell'arte con la sua straordinaria poesia visiva. Il genio di Hasama, dopo l'enorme successo conseguito con il suo capolavoro cinematografico Akira (1988), dalla fine degli anni '80 alla metà dei '90 si cimenta in una vasta produzione di opere, soprattutto antologiche, nelle quali spesso non figura come regista.


Roujin-Z, (1991), film di cui Otomo è scrittore del soggetto, sceneggiatore e character designer, narra le vicende di un anziano che, dopo essere stato utilizzato come cavia da un'imprudente azienda bio-medica governativa, incappa in una serie sempre più pericolosa di eventi che vedono il suo nuovo letto ultra moderno, creato appositamente per accudirlo nei suoi ultimi mesi di vita, distruggere Tokyo dopo aver preso coscienza di sé. Il surrealismo e la commedia, caratteri sempre presenti nelle opere meno pretenziose ma altrettanto argute dell'artista, definiscono una trama dai forti connotati sociali in cui vengono trattati sia temi cari all'autore come, per esempio, l'incoscienza dell'essere umano nel voler spingersi troppo oltre i propri limiti conoscitivi e la macchina che da artificio umano si ribella e diventa mezzo autonomo di distruzione di massa, sia altri più originali, ovvero determinati da lineamenti politici diversi da quelli presenti in Akira, il magnum opus di Otomo ma non per questo l'unico rappresentante delle sua sfaccettata poetica.



Roujin Z | Daelar Animation
© A.P.P.P. Co.


Gli argomenti che infatti definiscono il film sono la riluttanza del popolo giapponese nei confronti degli anziani, considerati come un mero peso ingombrante in una società in continua espansione, e l'incompetenza delle istituzioni, le quali agiscono sempre in modo irresponsabile per salvarsi la faccia, siccome di dignità non ne è rimasta, e non proteggono invece una popolazione che senza una guida si affida al completo delirio per sopravvivere. Hiroyuki Kitakubo, protégé di Otomo ancora tecnicamente non esperto ma comunque provvisto di un grande talento per l'arte del cinema, dirige questa assurda orchestra di elementi umani e cibernetici, organici e digitali, scolpendo un ritmo frenetico che toglie il fiato. Il lungometraggio alterna sequenze e tempi di diverso approccio al genere fantascientifico: commedia quando si osservano le grottesche fughe del letto meccanico e gli strampalati discorsi dell'anziano, giallo e spionaggio quando la task force deve pedinare il robot impazzito, azione durante le tante sparatorie che avvengono in interi quartieri messi a ferro e fuoco dalle forze in campo. Roujin-Z, grazie alla regia di Kitakubo (che cura tutto lo storyboard del film), acquista una lettura poliedrica nella messa in scena e mantiene sempre alto il proprio gradiente di coinvolgimento, tuttavia, per via di un budget piuttosto ridotto, non risulta granché nella resa scenica complessiva dei suoi tanti dettagli visivi. Il film, dunque, pur avendo un ottimo potenziale estetico (e un giovanissimo e più che talentuoso Satoshi Kon come art director), tecnicamente non si scosta troppo da una realizzazione di qualità medio-bassa.



Roujin Z | Daelar Animation
© A.P.P.P. Co.

Il capo d'opera del regista arriva invece nell'anno 2000. Blood: The Last Vampire, progetto tratto dal romanzo Kemonotachi no Yoru (La Notte delle Bestie) di Mamoru Oshii, rappresenta il primo film creato quasi completamente in CGI nella storia dell'animazione giapponese, un metodo di realizzazione al tempo impensabile nel "Paese del Sol Levante" dato il suo profondo legame con la tecnica tradizionale. Questo mediometraggio - circa tre quarti d'ora di durata - narra, in sintesi, una missione sotto copertura che deve affrontare una ragazza vampiro di nome Saya nella base statunitense di Yotaka, in Giappone. Siamo a metà degli anni '60, poco prima che cominci la Guerra del Vietnam. Saya è l'ultimo vampiro originale rimasto sulla Terra e, per conto dell'agenzia segreta Red Shield, deve eliminare dei "chiotteri" rilevati nei pressi di una base militare. I chiotteri, nel racconto di Oshii, sono esseri umani che, dopo essere stati morsi e quindi infettati da un vampiro originale, sono divenuti anch'essi dei vampiri. Il film, partendo da questo incipit, prosegue seguendo le azioni di Saya, la quale, una volta infiltratasi nella scuola che si trova nella base statunitense, scopre che le creature si trovano proprio all'interno dell'istituto.


L'opera comincia con una delle scene più riuscite dal punto di vista registico dell'intera storia del cinema d'animazione, un'assassinio in metropolitana diretto magistralmente che, con l'ausilio di tecniche inusuali per un film animato (zoom, carrelli, brevi piani sequenza), genera una tensione palpabile e un climax perfettamente calibrato dall'inizio alla conclusione del segmento narrativo.



Blood: The Last Vampire | Daelar Animation
© Production I.G | © IG Port


Le atmosfere del film sono tetre e oscure, con uno sguardo al gotico anche se radicate saldamente in un universo dark-fantasy dalle scenografie realistiche. Tutto l'apparato tecnico dell'opera, creato dalla Production I.G, si presenta di altissimo livello; un banco di prova per Innocence (2004) di Mamoru Oshii, il miglior film d'animazione di sempre dal punto di vista grafico dopo Wall•E (2008) dei Pixar Animation Studios. La durata del mediometraggio, tuttavia, limita sia la qualità complessiva del film, sia la riuscita di una sceneggiatura di Kenji Kamiyama che, infatti, si presenta notevolmente incompleta per ciò che concerne la caratterizzazione dei personaggi. All'inizio del XXI secolo, dopo il successo mondiale di quest'opera breve, verranno creati sulla base del nuovo franchise svarianti videogiochi, ulteriori romanzi, una serie manga e un film live-action, dunque probabilmente fin dall'inizio l'intenzione della produzione di Blood: The Last Vampire è quella di lasciare che il progetto di Kitakubo "penzoli" per poi, successivamente, poterne spremere il nome sviluppando altre forme di business. Tale idea di mercato dell'arte si presenta qualitativamente un enorme spreco. Il mediometraggio sarebbe potuto risultare senza dubbio un capolavoro assoluto se solo fosse stato sviluppato con una trama più corposa e, soprattutto, più consistente.


L'unico tema che il film affronta in maniera esaustiva proviene, infatti, dal soggetto originale: la questione imperialista degli USA in Giappone (molto cara a Oshii), la quale viene messa in scena sotto-forma di sottomissione del popolo giapponese agli usi e ai costumi statunitensi.



Blood: The Last Vampire | Daelar Animation
© Production I.G | © IG Port


Nonostante l'elemento migliore di Blood: The Last Vampire resti indubbiamente la regia impostata da Kitakubo, che proprio grazie a questa sua prova tecnica va ricordato ancora oggi come una delle personalità più rilevanti dell'animazione giapponese, il film risulta concettualmente parte della straordinaria e complessa filmografia di Mamoru Oshii, artista intellettuale che in molte proprie opere, soprattutto in Patlabor 2: Il Film del 1993 e in Jin Roh del 1999 (quest'ultima diretta da Hiroyuki Okiura), descrive in modo brutalmente esplicito sia il periodo di occupazione americana, sia come, dopo la Seconda guerra mondiale, tale momento storico abbia consumato e letteralmente dilaniato l'identità nazionale giapponese. Nel mediometraggio, infatti, si osserva un popolo culturalmente castrato, incatenato perché perdente, che non ha la minima voglia di riscattarsi. Tale argomento si può scorgere al di là della storia e dei personaggi principali perché nulla di esso emerge dalle vicende che accadono. Il tema, infatti, si può intuire soltanto se si dà uno sguardo ai fondali del film, ovvero a ciò che la camera non riprende in primo piano. La città di Yotaka sembra essere sospesa nel tempo e, non a caso, si rivela un paese fantasma in cui si nascondono creature aberranti e sanguinarie. La protagonista se ne accorge praticamente appena arrivata, quando capisce che sia dentro, sia fuori la scuola nella quale deve indagare qualcosa decisamente non va. I demoni sono coloro che non si fanno mai vedere alla luce del sole e, perciò, per scovarli bisogna addentrarsi nelle tenebre che ne permettono l'esistenza.

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