La Tomba delle Lucciole: Il tempo cristallizzato della vita negata
- Bruno Palma | Collaboratore

- 24 set
- Tempo di lettura: 9 min
Aggiornamento: 27 set
L’impossibilità dell’imparzialità nei war movies è sempre stata oggetto di accesi dibattiti e, in un clima geopolitico e artistico come quello contemporaneo, la domanda è prepotentemente tornata ad alimentare la discussione. È possibile, dunque, mettere in scena la guerra senza che diventi uno sterile gioco delle parti mosso all’insegna di una violenza estetizzata? In mezzo a molti film dal vero impegnati a mostrare il campo di battaglia, l’animazione è riuscita con doloroso successo a raccontare l’insensata spietatezza della sofferenza delle vittime innocenti. La Tomba delle Lucciole (火垂るの墓, Hotaru no haka, 1988) di Isao Takahata è attualmente in sala con un nuovo doppiaggio e, oltre che un’occasione per rivederlo al cinema, la splendida iniziativa ci è sembrata ideale per parlare di un film che non è solo unico, irripetuto e immortale ma che, come detto, riesce tutte le volte a imporsi sullo schermo come nessun’altra opera. Basato sull’omonimo romanzo autobiografico di Akiyuki Nosaka, il film racconta con un lungo flashback gli ultimi giorni di vita di due fantasmi: quelli dei fratelli Seita e Setsuko, impegnati a sopravvivere nella città di Kobe durante i bombardamenti mentre tutto intorno a loro si sgretola inesorabilmente. Prima opera di Isao Takahata prodotta internamente allo Studio Ghibli, la sua lavorazione meriterebbe un capitolo a parte talmente è stata difficile e rischiosa – come ogni regia di Takahata. Giusto per fare un esempio, alla sua prima uscita in sala il film aveva delle sequenze realizzate in bianco e nero che sono state colorate solo dopo settimane, rimandando nuove copie della pellicola ai cinema [1].

Cose che capitano quando dirigeva paku-san. In fase di preproduzione, dopo essersi confrontato con l’autore del romanzo, che si rivelò entusiasta all’idea di trasporre la sua storia in animazione dopo aver rifiutato molte proposte riguardo un adattamento cinematografico [2], Takahata volle concentrarsi su un punto opposto a quello del collega-amico-rivale Miyazaki: mentre le storie di Hayao avevano presentato al pubblico ambienti fantastici, intrecci contorti e personaggi emotivamente coinvolgenti, il suo film si sarebbe mosso su un piano più "intellettuale" attingendo alle sue personalissime memorie di sopravvissuto della Seconda guerra mondiale.
“Anno: 1942. Luogo: Okoyama. Isao Takahata è solo un bambino quando un’incursione aerea costringe la sua famiglia a fuggire da casa e trovare un riparo al sicuro dalle bombe. La folla e la confusione gli fanno perdere di vista i propri genitori, rimanendo da solo con la sorella maggiore. È il panico. Costretti ad arrangiarsi, i due bambini riabbracceranno mamma e papà soltanto due giorni dopo.” [3]
Un lieto fine decisamente diverso da quello di Seita, di Setsuko e di moltissimi altri bambini giapponesi. La volontà di esaltare questa dimensione di speranze spezzate costituisce il vero motivo per cui Takahata sceglie di portare avanti un racconto costruito su un determinismo ineluttabile e che riflette sul tempo negato ai protagonisti in un mondo che si distrugge e, contemporaneamente, resta invariato davanti alla loro sofferenza.

Il film riesce a essere il punto di contatto tra la forma dell’animazione e un contenuto che cammina sulle orme del neorealismo – movimento creato senza manifesti dichiarati le cui opere furono accomunate dalla necessità di fare i conti con la profonda rottura storica, sociale ed economica del Secondo conflitto mondiale. Dalla frattura postbellica si creò un immaginario fatto di inquadrature posate, lente, a volte persino fisse e di un montaggio che, invece che puntellare l’azione frenetica dei film di Hollywood, scolpiva un flusso temporale pacato, quasi trascendentale [4]. Le trame dei film neorealisti si concentravano quasi esclusivamente sul poverissimo proletariato colpito più di tutti dalla guerra e preso a risollevarsi con estrema difficoltà. Una difficoltà segnata da un’indifferenza quasi meccanica del resto del popolo, impegnato anch’esso a fare i conti con le macerie. Nelle opere di Roberto Rossellini, di Vittorio De Sica e di Luchino Visconti, chi viene privato di tale speranza sono i bambini, molto spesso inermi testimoni di bieca violenza o oggetti narrativi accessori alla narrazione e mai veri protagonisti. La Tomba delle Lucciole raccoglie non solo le lezioni del neorealismo ma anche quelle della produzione animata e cinematografica giapponese uscita dal paese dalla seconda metà degli anni ’40 in poi non per abbracciarle – come fatto col movimento nato in Italia – ma per sovvertirle. Molti dei film prodotti in Giappone durante l’immediato dopoguerra, infatti, non raccontavano il conflitto come un inferno impietoso ma come uno scenario epico in cui i soldati avevano occasione di diventare degli eroi [5]. Il cinema postbellico nipponico divenne dunque il simbolo di un paese che non aveva intenzione di fare i conti con un passato ancora troppo recente e doloroso e che cedette rapidamente il passo a una quasi immediata tecnologizzazione.

Di contro, i manga, dalla seconda metà degli anni ’50, iniziarono ad elaborare le ferite attraverso opere come Super Robot 28 (鉄人28号, Tetsujin 28-go) di Mitsuteru Yokoyama – capostipite del genere mecha che fonda le sue premesse narrative proprio su un progetto militare del governo giapponese destinato a portare il paese alla vittoria. Il manga venne trasposto in animazione solo negli anni ’80, al termine di un processo di maturazione degli anime durato vent’anni attraverso cui il paese aveva finalmente trovato la propria cifra estetico rappresentativa distanziandosi dagli americani – che avevano ispirato un po’ tutti a partire dagli anni ’30. Dalla produzione di Tezuka in poi, i corpi dei personaggi degli anime, prima disegnati e poi animati, non erano necessariamente corpi snodati, assurdi e anarchici come quelli delle mascotte americane [6]. I corpi dell’animazione giapponese si avvicinavano spaventosamente a un regime di realismo diverso. I corpi degli anime sanguinavano [7], i personaggi venivano deliberatamente creati all’insegna della sofferenza laddove, fino a quel momento, l’animazione era sempre stata vista come il reame dell’impossibile utopico. Un cortocircuito semiotico fondamentale, insieme al punto che segue, per capire come mai La Tomba delle Lucciole sia ancora oggi così devastante. Storicamente, come detto all’inizio, i film di guerra si sono ancorati a due sistemi fondamentali: le stanze del potere, lontane dal conflitto, e il campo di battaglia, una polveriera esplosiva e prima immagine che si fa coincidere col concetto di "guerra".

Nel caso del primo sistema il conflitto è quasi del tutto ignorato, non si vede né si percepisce e si fa appello alla conoscenza dello spettatore. Nel caso del secondo, quando l’azione si sposta in trincea, è inevitabile per lo spettatore prendere una parte durante lo scontro a fuoco – quasi sempre raccontato dalla prospettiva degli alleati che raggiunge una violenza morbosa ma fine a sé stessa, priva di una vera contestualizzazione. I nemici sono caricaturali e gli schieramenti sono chiari: ci sono i buoni e i cattivi. Un terzo spazio potrebbe essere quello del nascondimento, attraverso cui si racconta di come i perseguitati venissero celati da ribelli coraggiosi in grosse strutture o case private o, ancora, quello solo accennato e mai approfondito del campo di concentramento. È quindi paradossale come, in questa moltitudine di spazi e opere, i film che mostrano la sofferenza dei civili, dell’umanità sacrificata durante la guerra, di quella frangia di popolo schierata ideologicamente ma non militarmente sono pochi, pochissimi. Ma, attraverso i suoi slanci rappresentativi inediti che gli garantiscono lo status di capolavoro – definizione condivisa anche da Miyazaki –, La Tomba delle Lucciole si smarca dal racconto del conflitto in quanto tale e riesce a mostrare l’impotenza assoluta che si trasforma in una dissennata corsa alla sopravvivenza senza scadere in retoriche semplicistiche. Ponendo i due bambini al centro della storia, il film relega gli adulti a ruoli grigi o quasi esclusivamente negativi – esecutori di ordini o semplicemente burocrati noncuranti. La forza nemica viene sì nominata ma mai mostrata direttamente, evitando la bipartizione bene-male – non ci sono i cattivi da odiare, c’è solo il fuoco che piove dal cielo, incessantemente.

Non ci sono gli spazi della trincea e degli spari, ci sono delle macerie metafisiche – quasi antoniane – che accolgono la disperazione di Seita e Setsuko. Non c’è la camera a mano di Salvate Il Soldato Ryan (1998), c’è una macchina fissa e il primo piano del corpo della madre dei bambini putrefatto e dilaniato dalle ferite. Non c’è il calore familiare, c’è una lontana zia che, nonostante tutto, fa leva sui fratelli – e, in particolare, sul senso dell’onore di Seita – per guadagnare del cibo e tenerlo per sé. Non c’è empatia, ci sono l’indifferenza e la crudeltà del prossimo, impegnato a sopravvivere e incapace di condividere. Non c’è la speranza della rinascita, c’è un paese che, al termine del conflitto, sceglie di voltarsi dall’altra parte ignorando la morte del suo passato in favore di un futuro vuoto [8]. Non c’è la spensieratezza, c’è l’atroce consapevolezza di Seita che il Giappone è sconfitto e che suo padre non tornerà mai a casa. Non ci sono sogni, ci sono la fame vera e il corpo di Setsuko che cede alle allucinazioni degradandosi lentamente e dando vita a una delle immagini più spietate della storia del cinema, “qualcosa di atroce e davvero inedito nel panorama dell’animazione giapponese” [9]. Per quanto i bambini non siano reali la loro devastante sofferenza, esaltata attraverso il filtro universalizzante dell’animazione, sì. Il calvario è la ragione dell’insostenibilità del film – non che due fratelli muoiano, ma che muoiano soli e attorniati dal più totale disinteresse. Ecco perché La Tomba delle Lucciole ci terrorizza: perché è vero che fin dall’inizio Seita è un morto che parla – pronunciando un incipit entrato di diritto nella storia del medium –, ma è anche vero che finché non guardiamo coi nostri occhi l’orrore che ha logorato e ucciso lui e la sorella, non saremo mai in grado di confrontarci e comprenderlo davvero.

È necessario assistere alla morte per poterla riconoscere. E, anche se potrebbe sembrare il contrario, Takahata non nega né l’esistenza della guerra nel passato della storia né la sua presenza all’interno del presente del film. La lucidità dell’opera sta nel suo totale ripudio degli intenti, della distruzione che annienta senza riserve, della sua dimensione di morte continua. La regia di Takahata resta inchiodata sulle violenze subite da Seita nei campi e sulla sua permanenza in commissariato e, al contempo, indugia lenta e dolce sulla dimensione del tempo perduto, sui momenti in cui Setsuko, mentre il fratello cerca del cibo, gioca come può imitando un’infanzia in realtà mai davvero vissuta. La geniale monocromia della dimensione fantasmatica che ricorre lungo tutto il film infonde nel quadro un’angoscia spiazzante che ci ricorda come tutto quello che stiamo vedendo è già fatalmente e irrimediabilmente passato e come non ci sia via di scampo, redenzione o riscatto. In tutto questo le lucciole diventano una metafora potentissima, con la loro flebile luce che riesce per qualche istante a trasportare i bambini in un altro tempo e in un altro spazio in cui, comunque, i sogni di Seita sono sogni di guerra e di vittoria militare. Un immaginario completamente votato alla cecità di una nazione ormai a terra. Si mangia, si dorme, si vive per la patria e per la guerra tanto che mangiare una caramella, correre sulla battigia e strimpellare al pianoforte sono azioni quasi deprecabili. Piccoli momenti cristallini che contengono una vita intera che, drammaticamente, non verrà mai vissuta.

E così, le lucciole muoiono presto come muore presto ogni speranza dei due fratelli di ritrovare qualsiasi armonia in quella che è una visione completamente rovesciata dell’infanzia rispetto alla rassicurante dimensione bucolica illustrata in Il Mio Vicino Totoro (となりのトトロ, Tonari no Totoro, 1988) di Miyazaki, uscito in sala in coppia proprio con La Tomba delle Lucciole [10]. Takahata riesce insomma egregiamente a rigettare il conflitto militarizzato dove il collega-amico-rivale stenta ancora ad allontanarsene completamente. Nonostante i film di Miyazaki siano infatti notoriamente contro ogni guerra, Hayao non si fa remore a inserire scene di conflitto – a volte anche spietato, sanguinoso – per alimentare le sue tesi. In tempo di guerra, le vite dei due pilastri del Ghibli sono state diverse e, quando Takahata vagava per i campi riarsi in cerca di cibo, la famiglia di Miyazaki poteva permettersi di possedere una macchina [11]. E, in fase di produzione Miyazaki contestò perfino la situazione dei due bambini sostenendo che i figli di un militare non sarebbero mai andati incontro a quell’inferno, non era credibile per lui [12]. Le intenzioni di Takahata riguardo l’assenza dello scontro armato, della glorificazione del conflitto e delle truppe militari sono un chiaro specchio del suo vissuto e dell’interiorizzazione di una verità ancora troppo ignorata: la guerra non porta vittorie per nessuno. Mai. Ecco perché ancora oggi, La Tomba delle Lucciole resta un’opera dall’importanza assoluta e dalla potenza unica. Ecco perché è fondamentale rivederlo in sala in questi giorni. Non solo perché rimane ancora oggi dolorosamente attuale, ma anche perché, col suo capolavoro, il maestro ha davvero capito come si mette in scena la guerra: rifiutandola.
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APPROFONDIMENTI
[1] [2] Cfr. T. Suzuki, I geni dello Studio Ghibli, trad. it. di G. Buttiglione, Dynit Manga, 2023.
[3] E. Azzano, A. Fontana, Studio Ghibli. L’animazione utopica e meravigliosa di Miyazaki e Takahata, nuova ed., p. 74, Edizioni Bietti, 2024.
[4] Cfr. G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, trad. it. di JP. Manganaro, Einaudi, 2016.
[5] Cfr. S. Wilson, “Film and Soldier: Japanese War Movies in the 1950s” in Journal of Contemporary History, Vol. 48, No. 3, Sage Publications, Ltd, 2013.
[6] Cfr. K. Redrobe, “The Worries of the World(s) Cartoons and Cinema” in World Building, Amsterdam University Press, 2017. (https://www.jstor.org/stable/j.ctt1zkjz0m.17.)
[7] Cfr. M. Steinberg, “Realism in the Animation Media Environment: Animation Theory from Japan” in Animating Film Theory, Duke University Press, 2014.
[8] Cfr. W. Goldberg, “Transcending the Victim's History: Takahata Isao's Grave of the Fireflies” in Mechademia: Second Arc, Vol. 4, War/Time, University of Minnesota Press, 2009.
[9] E. Azzano, A. Fontana, Studio Ghibli. L’animazione utopica e meravigliosa di Miyazaki e Takahata, nuova ed., p. 85, Edizioni Bietti, 2024.
[10] I due film vennero distribuiti con la strategia del “doppio spettacolo”, in cui due film venivano proiettati di seguito uno dopo l’altro.
[11] [12] Cfr. T. Suzuki, I geni dello Studio Ghibli, trad. it. di G. Buttiglione, Dynit Manga, 2023.



