Fritz the Cat è la messinscena di un delirio sociale, ovvero della fine degli anni '60 negli Stati Uniti d'America. Si tratta del primo film animato occidentale classificato con target +18 e viene spesso descritto come "il primo film d'animazione adulto della storia", siccome la vena satirica con la quale il regista Ralph Bakshi impregna il lungometraggio si presenta davvero ai limiti della decenza. Per questo motivo, anche grazie a sequenze esplicite e sanguinolente, l'opera prima dell'artista israeliano-statunitense delinea una new wave dell'animazione americana, una scuola anticonformista che demolisce i muri del perbenismo cardine, fino a quel momento, di quasi tutti gli intrecci delle opere d'animazione occidentali. Il regista, infatti, per la prima volta introduce humor nero, pornografia e prostituzione, uso di droghe e violenza efferata nei cartoni animati. La rivoluzione di Fritz the Cat, dunque, va ben oltre il cinema animato e rappresenta un cambiamento radicale dell'intero medium dell'animazione, compreso quello seriale e dei cortometraggi promozionali. Il film, tratto da un fumetto underground di Robert Crumb, il quale odia profondamente la versione cruda di Bakshi, narra le disavventure di un gatto perdigiorno che bazzica per le vie di New York. Il protagonista ripudia qualsiasi forma di collocazione e di condotta accettabili dalla società in cui vive: degli USA senza più valori e sull'orlo dell'apocalisse.
Il Bronx messo in scena è un covo di sbandati tossicodipendenti, di prostitute, di approfittatori e di barboni, un luogo in cui non si contano i tanti bar frequentati da afroamericani (corvi) che, alimentati dall'alcol e da un odio viscerale verso i "bianchi" (mammiferi di varie specie), vivono alla giornata. I poliziotti (maiali), rozzi, pervertiti, stupidi e violenti, vagano per il quartiere in cerca di prede facili da poter pestare a morte o massacrare. Come si può notare fin dai primi minuti di visione, gli animali antropomorfi non sono scelti a caso per raffigurare i vari personaggi del film. In tutto questo caos, Fritz rappresenta un protagonista quasi positivo: aperto di mente, vittima di una pulsione sfrenata verso il sesso, amante delle droghe, pieno di sé, intelligente, abile nel raggiro e a fuggire dalla polizia. Un perfetto dandy anni '60, che ascolta i Velvet Underground fumando erba e che rimorchia giovani ragazze dallo spirito intellettuale parlando di filosofia e di quanto il suo sia un animo profondo e timorato. Fritz, dopo essere stato convinto da un'affascinante faina a fuggire con lei dal microcosmo newyorkese, si muove alla volta di Los Angeles. I due, tuttavia, durante il viaggio si separano e Fritz rimane a piedi nel bel mezzo del deserto dell'Arizona. Il protagonista, dopo poco tempo, incontra un coniglio neo-nazista eroinomane che lo sente sproloquiare su intenti rivoluzionari, ribellione di massa e sovversione del potere.
Colpito dall'animo acceso del ragazzo, il coniglio gli fa cenno di montare in sella con lui sul suo chopper. Fritz accetta l'offerta. In breve tempo capisce che è finito in un brutto giro, nel mezzo di una banda terroristica di ultima categoria composta da pazzi di una violenza feroce e disumana. Il protagonista, tuttavia, non riconosce la società con la quale è costretto a fare i conti ogni giorno, quindi si prende a carico il dovere di far saltare in aria una fabbrica con un ordigno esplosivo. I suoi compagni, una volta accesa la miccia, lasciano che Fritz esploda assieme allo stabilimento. Il finale del film vede il protagonista sul letto d'ospedale mentre viene consolato dalle ragazze con cui amava tanto spassarsela a New York, facendo dunque capire allo spettatore che infondo niente nella vita gratifica come il sesso, tantomeno dei qualsiasi ideali.
Il lungometraggio, pubblicato nel 1972, tecnicamente presenta tutti i difetti di una produzione indipendente dal budget medio-basso. Sia i fondali che i personaggi, infatti, appaiono poveri di dettagli e il key-frame di molte scene risulta piuttosto approssimativo. Nota positiva invece per la fotografia, che si presenta suggestiva, cromaticamente ricca e sfumata soprattutto nelle sequenze più allucinogene. La colonna sonora, che varia dal rock psichedelico al bebop fino al funk, al country, allo smooth jazz, è fondamentale per creare le atmosfere decadenti e fumose del film.
Fritz the Cat è un'opera di rottura. Dire che critica la società statunitense è un eufemismo, in quanto il primo lungometraggio con Ralph Bakshi alla sceneggiatura e alla regia descrive, tramite caricature, tutto il disagio nazionale dell'epoca, fotografandone i conflitti sociali e razziali, quelli tra il crimine e le forze dell'ordine, quelli tra una realtà prescritta, ordinaria e una giovanile, anarchica, senza pudore né alcun rispetto verso sé o verso gli altri. Si vive il precariato umano fumandoci o bevendoci sopra. Chi ostenta viene rapinato o messo a nudo, marchiato a vita da una follia dilagante che opprime senza lasciare libero alcun buco per respirare. Chi vuol far sentire la propria voce viene pestato o ucciso, messo a tacere per sempre. Chi fugge rientra sempre, in qualche modo, nel circuito marcio della malavita, poiché il suo seme quando sedimentato nei comportamenti germoglia e, inesorabilmente, attira solamente immoralità, disonestà, corruzione e depravazione. La società-cancro di Fritz the Cat è una macchina infernale dalla quale è impossibile uscire. È nitido, dunque, il fatto che la visione del mondo di Bakshi sia molto più pessimistica di quella di Crumb, che sia senza alcuna speranza e che sia, soprattutto, del tutto repulsiva verso il genere umano: una razza animale fallita come - metaforicamente - risultano essere tutte quelle presenti nel lungometraggio.
Il secondo film di Ralph Bakshi continua il racconto di Fritz the Cat ma cambia gli attori. Heavy Traffic (1973), infatti, narra la storia di un giovane vignettista - di padre italiano e di madre ebrea - che vuole scappare dall'inferno quotidiano nel quale è costretto a vivere tra le strade di una New York putrida e raccapricciante. Le prime scene dell'opera si presentano di una violenza inaudita, se possibile superiore a quella che contraddistingue il primo lavoro del regista. Bakshi, ora anche ideatore del soggetto nonché della sceneggiatura, non pone alcun freno alle immagini, inscenando dunque una sequenza più agghiacciante dell'altra mentre delinea l'intreccio del lungometraggio. La trama descrive sempre una tentata fuga dal degrado, questa volta ponderata e non effettuata come ultima spiaggia. Quella del protagonista di Heavy Traffic è infatti una fuga ideata per il proprio riscatto sociale e personale, per evolvere e lasciarsi il passato e il presente alle spalle. La società in cui vive, tuttavia, lo soffoca e lo trasforma mano a mano che egli cerca di liberarsene. Il ragazzo, da ingenuo e timido, diventa lo specchio della realtà che tanto aborra e dalla quale vorrebbe fuggire con tutte le forze. L'ambiente che lo circonda lo plasma, lo avvia verso strade che lo corrodono e lo mutano. Il protagonista è quindi condannato alla completa autodistruzione.
Heavy Traffic si presenta decisamente meno spensierato di Fritz the Cat. Il film, come l'album Transformer di Lou Reed (1972), racconta una New York che cambia costantemente faccia: da sensuale a spietata, da disperata e rassegnata a presuntuosa e arrogante. I suoi cittadini e le sue costruzioni sono in continua metamorfosi, non rimangono mai nello stesso punto per più di un minuto. Tutto si muove. Tutto viene divorato o divora. Non esiste, in questa enorme, affascinante e malefica giungla urbana, una qualsiasi regola che possa preparare una persona alla sopravvivenza. Bakshi scrive e dirige il suo Taxi Driver (1976); un lungometraggio forse meno d'impatto rispetto a Fritz the Cat ma, questa volta, adulto e riflessivo, dal gusto parzialmente autobiografico, con personaggi più curati e con alcuni particolari - come la sequenza del pedinamento - che finalmente esaltano le capacità registiche dell'artista. Heavy Traffic è, inoltre, la sua prima opera in tecnica mista. Ciò propone uno sguardo più netto, meno satirico e meno caricaturale della realtà che vuole descrivere. Le scenografie, sia riprese in live-action, sia disegnate, risultano sporche e cupe come, del resto, si presenta ogni aspetto del film, dai personaggi grotteschi alle animazioni estremamente pop.
Le musiche, tuttavia, a contrario di quelle di Fritz the Cat, risultano poco incisive. La colonna sonora, infatti, si limita ad accompagnare il lungometraggio mentre nello schermo si svolgono le varie disavventure che vivono il protagonista e la sua terribile famiglia.
Coonskin (1974), terzo lungometraggio che chiude la prima trilogia "metropolitana" o "urbana" di Ralph Bakshi, approfondisce la questione afroamericana, alternando la storia di due carcerati in fuga a quella di tre amici che cercano di farsi strada tra i bassifondi di New York. Gli stereotipi definiscono sia le caratterizzazioni di tutti i personaggi, sia la trama farraginosa del film. La tecnica mista utilizzata dal regista, infatti, si presenta utile per creare suggestive scenografie in cui si muovono i protagonisti, tuttavia rende confusionario lo sviluppo degli intrecci, i quali evolvono - non sempre - in modo autonomo saltando da una vicenda all'altra senza un senso di omogeneità narrativa. Questo lungometraggio, a differenza di Fritz the Cat e di Heavy Traffic, si può considerare un vero e proprio gangster movie. Bakshi punta sul realismo - sempre e comunque cartoonesco in alcuni punti - e plasma più racconti volti a descrivere come un afroamericano, a metà degli anni '70, possa realizzarsi economicamente e socialmente negli Stati Uniti d'America.
Le critiche al sistema americano sono feroci, tuttavia il regista non rende le sequenze violente sopra ogni limite di decenza come nelle sue opere precedenti, bensì contestualizza il film analizzando i disagi che affrontano ogni giorno gli afroamericani in una grande città come New York.
I tre protagonisti animati, "Fratello Coniglio", "Fratello Volpe" e "Fratello Orso" (doppiato da Barry White), riescono a farsi un nome, a trovare stabilità economica e a crearsi uno status destreggiandosi negli unici tre campi in cui un afroamericano, secondo la visione razzista che critica Bakshi, può eccellere: la mafia, la prostituzione e il pugilato. I tre personaggi principali, infatti, riescono a diventare qualcuno usando i metodi, più o meno ortodossi, a loro disposizione. Estorsione, omicidio e rapimento sono le procedure che, per esempio, fanno diventare "Fratello Coniglio" uno dei boss più temuti di New York, tanto potente da infastidire gli italiani che controllano i traffici di droga in città. L'astuzia di "Fratello Volpe", invece, gli permette di mascherare da chiesa cattolica uno dei bordelli più raffinati della metropoli, mentre la forza e il coraggio di "Fratello Orso" lo portano a diventare campione del mondo di pugilato.
I tre protagonisti si aiutano sempre l'un l'altro. Ciò che li accomuna e li salva da morte certa è il loro costante rifiuto verso "l'America incarnata", una giovane e biondissima prostituta pronta ad uccidere tutti gli afroamericani che tentano di avvicinarla. Concettualmente, Coonskin è l'opera più matura della prima fase di Ralph Bakshi, quella in cui si sviscera New York ricavandone ogni aspetto del suo marciume, della sua decadenza, del suo fallimento come microcosmo sociale. Gli Stati Uniti d'America, nell'analisi del regista, vengono rappresentati come l'inferno, un posto in cui la natura umana viene semplificata a puro istinto di conservazione. Il film, nonostante le forti tematiche ben espresse, zoppica sia nella sceneggiatura, sia nella regia. Bakshi non riesce a costruire alcuna scena di vero impatto, a concedersi un momento nel quale il suo estro artistico possa davvero spiccare o rendere il lungometraggio avvincente. È come se si auto-imponesse di dover girare un film con poca logica narrativa per rifarsi a vicissitudini dei personaggi che, pur essendo strutturate, non risultano sempre credibili. Per questo motivo, il realismo forzato dell'opera riduce il cinema di Bakshi a non poter essere eccessivo, particolare che, per quanto sia certamente voluto, limita il lungometraggio a risultare un racconto intelligente diretto in modo quasi mediocre.