Pete Docter è uno dei professionisti più celebri, premiati e prodigiosi che accompagnano, fin dalle origini, John Lasseter nella produzione delle opere targate Pixar Animation Studios. Esordisce alla regia nel 1988 con il cortometraggio Winter, mentre nei due anni successivi realizza altri corti come Palm Springs e Next Door. Questi tre film brevi creati in gioventù in tecnica tradizionale mettono già in luce l'artista non solo come un abile tecnico, bensì prima di tutto come un interessante autore in erba della settima arte. Infatti, già dall'osservazione dei corti si può intuire quali siano e quali saranno, in futuro, i punti concettuali cardine della sua sfaccettata poetica: con la fantasia e contro la ferrea logica, con il gioco, l'inclusione e contro l'arroganza adulta e il senso del rancore, con i bambini e la loro visione del mondo priva di limiti, contro "i genitori", ovvero la realtà prescritta e unilateralmente accessibile composta da una routine statica e, a lungo andare, debilitante. Docter è uno sceneggiatore e un produttore visionario, dotato di una profonda sensibilità, un artista che negli anni si è contraddistinto nel panorama dell'animazione cinematografica sia come l'autore più idealista e originale della Pixar, sia come uno dei registi più importanti della storia dell'animazione anglofona. Toy Story (1995), Toy Story 2 (1999), Monsters & Co (2001), Wall•E (2008), Up (2009), Ribelle - The Brave (2012), Monster University (2013), Inside Out (2015), Toy Story 4 (2018), Soul (2020) e Luca (2021) sono le principali opere a cui ha lavorato fino ad oggi in qualità di scrittore, sceneggiatore, regista e/o produttore esecutivo.
Nel 2018, inoltre, Docter diventa il direttore creativo dell'intera casa di produzione in seguito alle dimissioni di Lasseter, il "moderno Walt Disney" che adesso lavora per la Skydance Animation. Il suo primo lungometraggio, con cui condivide la regia assieme ai colleghi Lee Unkrich (Toy Story 3, Coco) e David Silverman (The Simpsons: Il Film, La Strada per El Dorado) è il capo d'opera Monsters & Co. Il lungometraggio, racconto dolce ma spietato con mostri che gridano sia per lavoro, sia per paura, consiste in una intelligente commedia fantasy tinta di provocazione e viene realizzata all'inizio del XXI secolo utilizzando gli strumenti digitali allora più avanzati dell'animazione cinematografica. Il primo film co-diretto da Docter si presenta dunque come un moderno e spassoso racconto di formazione, un'opera che tuttavia esprime anche sotto-testi dolceamari atti a descrivere la realtà (quella non filmica) che vuole analizzare. Come tanti dei primi lungometraggi Pixar, Monsters & Co infatti non è soltanto un'opera acuta e interessante grazie a una sceneggiatura magistrale nella scrittura dei dialoghi e a dei personaggi che risultano tutti, dai protagonisti ai personaggi di contorno, caratterizzati in maniera sublime, ma è anche portavoce di una critica sociale diretta e molto ben contestualizzata. Dopo il mondo dei giocattoli di Toy Story, il film mette in scena un'altra fantasia infantile distorta dagli autori della casa di produzione, in modo da inserire il quadro teorico dell'opera in una cornice concettuale più riflessiva, a perfetta misura interpretativa sia per i bambini che, soprattutto, per gli adulti.
Assieme a Inside Out (2015), Monsters & Co si presenta dunque l'opera più pedagogica della Pixar. Il lungometraggio esprime la sublimazione artistica di tanti dei cliché che accompagnano l'infanzia (la paura del buio, il mostro sotto il letto), i quali vengono rappresentati come l'alterazione di tutta una realtà fantasmatica - e quindi delle relative interpretazioni psicoanalitiche associate ad essa - che viene da sempre normale immaginare nel pensiero comune. Nell'opera, infatti, sono soprattutto i mostri ad essere terrorizzati a morte dai bambini. Oltre a questo, dagli spaventi che i mostri riescono a guadagnare con fatica, cercando di non essere toccati dai fanciulli per non finire contaminati, viene prodotta l'energia con cui l'intero loro mondo può continuare a esistere in pace e in relativa tranquillità. Tale società alternativa è ovviamente e tacitamente governata prima di tutto dal denaro, un bene che porta i potenti ad arricchirsi senza scrupoli e a promuovere un senso ostile di arrivismo che spoglia certe creature della loro dignità. La regia e il montaggio serrato e frenetico riescono a togliere il fiato, mentre le atmosfere apparentemente leggere e sempre coinvolgenti avvolgono un'opera che, soprattutto tecnicamente, nel 2001 porta la Pixar ad alzare di molto l'asticella qualitativa dell'animazione in CGI. Il rendimento complessivo della grafica computerizzata risulta infatti all'avanguardia per l'epoca.
La fotografia si presenta sempre lucida e quasi forzatamente patinata ma riesce bene a esaltare le forsennate variazioni cromatiche che caratterizzano, per esempio, l'antagonista Randal e le decine di setting che, soprattutto durante l'inseguimento finale tra le porte nel deposito, cambiano in maniera quasi convulsa ed estremamente riuscita grazie al montaggio straordinario di Jim Stewart. La vera rivoluzione tecnica arriva invece grazie al sistema di grooming impiegato per realizzare il pelo di Sully. Tale software di sviluppo rappresenta infatti quanto di più preciso si potesse raggiungere all'inizio del nuovo millennio. Inoltre, grazie al miglioramento complessivo del sistema di rendering adottato dagli studios, per la prima volta i personaggi creati dalla Pixar non risultano finti, di plastica, giocattoli, bensì rimandano allo spettatore la piena sensazione di star osservando creature che si muovono perché vive, non perché animate al computer. Le uniche parti del corpo che rimangono ancora inespressive sono gli occhi, visivamente delle palle di vetro lucido colorate, ma a rimediare a questo ci penserà Alla Ricerca di Nemo nel 2003. La casa di produzione di John Lasseter, grazie al magistrale comparto grafico ed estetico del film, continua quindi a perfezionare sensibilmente le potenzialità del 3D nel campo dell'animazione cinematografica.
Nel 2009, dopo otto anni dall'uscita di Monsters & Co, Docter torna alla regia di un lungometraggio creando con Bob Peterson (co-sceneggiatore di Alla Ricerca di Nemo, Ratatouille e Cars 3) uno dei migliori film occidentali della storia dell'animazione: Up. Quest'opera è, prima di tutto, uno dei racconti sentimentali più commoventi dell'intera animazione cinematografica e sicuramente, insieme a Wall•E (2008) di Andrew Stanton, rappresenta il film più romantico e sognante dei Pixar Animation Studios. Il regista crea, plasma e dirige una fiaba contemporanea pregna di sotto-testi sia delicati sia impietosi e inesorabili, che avvolge lo spettatore in atmosfere perennemente sospese da ogni logica razionale. L'intera vita di un uomo, vissuta con la propria dolce metà alla costante ricerca della possibilità di coronare il sogno di entrambi, viene sconvolta dalla morte e dal dolore. Gli sforzi di un'esistenza vengono resi vani di fronte all'arroganza e alla crudeltà del potere e del denaro. La monotonia e la senilità sopiscono completamente ogni entusiasmo e l'unica ragione per cui vivere diventa dunque la difesa dei propri fragili e troppo importanti ricordi. La nostalgia porta ad attuare una clamorosa, mirabile e disperata fuga per tentare di inseguire un'ultima volta quel sogno che ormai sembra dover rimanere incompiuto per sempre. I cieli della città si tingono allora di mille colori. I volti dei passanti diventano di colpo increduli osservando, sopra le loro teste, una vecchia, malmessa, variopinta casa scricchiolante sorvolare tetti, palazzi e fili della corrente.
Il miglior film di Docter narra, attraverso un intreccio scorrevole e accattivante, quanto possa essere difficile a volte superare un lutto quando esso rappresenta la perdita parziale di sé stessi, del proprio scopo nell'esistere, della forza che serve, giorno dopo giorno, per andare avanti a vivere senza troppi rimorsi. Il passato è l'unica forma di consolazione a cui ci si può aggrappare se non si riesce ad accettare la realtà per come si presenta. Proprio i ricordi prendono quindi il sopravvento e il comando dei movimenti del corpo, divenendo piccole manie nei gesti quotidiani. Le abitudini solitarie rendono sempre più docili i pensieri mentre incupiscono il carattere, che delicato e ferito scolpisce attorno a sé un'armatura di asprezza e di scontrosaggine per rinchiudersi e per rimanere isolato in attesa della fine. Solamente un'avventura imprevista può scuotere sensazioni tanto intense e viscerali. Sentirsi ancora utili per il presente, ancora in qualche modo amati, può dunque salvare dalle ombrosità un'identità che, reclusa nell'eterno rimembrare i cari vecchi tempi passati e ormai imprescindibilmente persi nell'oblio della memoria, combatte per trovare ancora una volta il proprio obiettivo al fine di continuare a non lasciarsi morire. Up è un film per famiglie audace, melanconico ma mai melenso, soave ma mai mellifluo. L'incipit del lungometraggio, se al tempo fosse stato concepito come cortometraggio a sé stante, sarebbe ancora oggi il miglior lavoro breve della Pixar assieme a Piper (2016) di Alan Barillaro.
Già durante i primi minuti di visione si percepisce la summa della poetica di Docter, artista tanto abile da saper gestire un dramma dal sapore agrodolce, nonché dalla portata sentimentalmente hollywoodiana classica, in un solo ma penetrante quarto d'ora. I primi minuti di visione, infatti, si presentano tecnicamente eccelsi grazie a una regia che agevola il racconto, che scolpisce i caratteri di ascesa - prima - e discesa - dopo - degli stati d'animo dei personaggi, che proietta su schermo una parabola amara dell'esistenza e che, infine, non lascia affatto imperturbati. Il film, successivamente, sviluppa l'intenso seppur conciso melodramma ormai appassito, arricchendolo con una trama appassionante che trasporta i protagonisti in un'avventura sanatoria, dal pieno respiro romanzesco, espressa con un magniloquente senso di sfida verso l'ignoto degno della fantascienza di Jules Verne. "L'avventura è laggiù!"
Il percorso poetico ed estremamente vicino allo sviluppo sia fisiologico, sia psicologico, sia storico dell'essere umano che caratterizza gran parte del lavoro di Pete Docter viene forse sublimato nel 2015 con, per adesso, l'ultimo reale lungometraggio capo d'opera realizzato dalla Pixar: Inside Out. La visionaria magia animata che permea il film ne compone una messinscena straordinaria: un'interpretazione dei sistemi cognitivi, delle aree cerebrali e delle connessioni neurali umane unica nella storia del cinema.
Il film, infatti, è da considerare prima di tutto un capolavoro di neuro-estetica. In Inside Out, la creatività messa in atto dai tecnici non solo produce delle animazioni fluide, una fotografia espressiva e satura di personalità all'interno di ogni sfumatura di colore, bensì realizza soprattutto delle proposte visive e funzionali originali della citoarchitettura del sistema nervoso centrale umano e riesce, in modo geniale, a semplificare concetti ed elementi complessi come la memoria, l'identità e il carattere, le emozioni, l'inconscio, l'immaginazione, il comportamento e la fantasia. La trama del lungometraggio risulta dunque una scusa per l'autore, un pretesto per poter narrare visivamente cosa accade nelle nostre teste, come si attuano le azioni consce e non che ci permettono di avere relazioni, di decodificare le situazioni, di immagazzinare i ricordi, di poter astrarre la realtà e quindi di sognare. Il film ragiona sullo shock provato dalla piccola protagonista per via del trasferimento della sua famiglia, un forte cambiamento che prima sconvolge la sua quotidianità e che, di conseguenza, gradualmente demolisce le sue convinzioni, le sue amicizie passate e la sicurezza in sé stessa. La terza opera di Docter si presenta come un film perfettamente leggibile per qualsiasi età, per qualsiasi persona a prescindere dal proprio bagaglio culturale e risulta, quindi, un'opera che nel suo insieme si può ritenere universale e appagante sia sul piano teorico, sia sul piano visivo, sia sul piano ovviamente cinematografico.
Subito dopo la pubblicazione di Inside Out, il regista vuole continuare a sviscerare gli ambienti nascosti, inesplorabili della mente e del pensiero umano. Dunque, dopo essere diventato il direttore creativo della Pixar, Docter unisce al proprio team di sviluppo i giovani professionisti Kemp Powers e Mike Jones per realizzare Soul (2020), lungometraggio che vuole portare il discorso di rappresentazione della psiche su un livello più adulto e più complesso. Il film rappresenta un'altra vittoria della casa di produzione, tuttavia non raggiunge la qualità complessiva delle opere precedenti di Docter per via di una scrittura imprudente e fin troppo coraggiosa della messa in scena. Il tanto atteso film dell'autore più visionario della Pixar sviluppa un ulteriore aspetto della poetica del regista; si focalizza infatti sui legami che intercorrono tra concetti ben più astratti di quelli analizzati nel precedente film: anima, vocazione, talento, ispirazione e passione. La sceneggiatura, tuttavia, non si presenta solida e riesce a unire in maniera sia goliardica, sia intensa e riflessiva una trama non troppo originale con trovate audaci ma assurde come le realizzazioni materiali di idee difficili anche solamente da concepire. Si passa infatti dalla resa concreta dell'aldilà e degli angeli, prodotti seguendo un design di limited animation in pieno stile Cavandoli, alla rappresentazione onirica del break-down psicologico e dell'estasi ultraterrena.
Nell'opera, quindi, molteplici elementi cercano di trovare una propria giustificazione e, soprattutto, una funzionalità all'interno dell'intreccio e dello sviluppo, anche emotivo e sentimentale, del lungometraggio nella sua totalità. Soul, per fortuna, riesce in più situazioni a soddisfare questo bisogno primario di coerenza sia narrativa che visuale, ma non sempre riesce a mettere in risalto avvenimenti e personaggi affinché il tutto risulti più che godibile. Tecnicamente, invece, la Pixar gestita da Docter si rivela sperimentale e capace di realizzare ambientazioni realistiche e fantasmatiche dall'estetica eterogenea, animazioni che giocano come non mai sugli aspetti immaginari delle dimensioni soprannaturali, atmosfere sia comiche che, soprattutto, drammatiche che mettono da subito in chiaro la natura adulta e matura dell'opera. La musica, infine, si rivela la protagonista latente e celata del racconto, un'esperienza sensoriale che dona alla trama più corposità della maggior parte delle vicissitudini che guidano la storia. La colonna sonora scritta da Trent Reznor assieme ad Atticus Ross e i temi jazz composti dal pianista Jon Batiste fungono infatti da veri e propri catalizzatori per il lungometraggio: matrici espressive, vivide e rivelatrici grazie alle quali, dunque, il film non risulta in alcuna occasione narrativamente slegato o incongruente.