Nel periodo nel quale Mamoru Hosoda lavora sotto le direttive dello studio d'animazione Madhouse, ovvero tra il 2005 e il 2009, il regista conosce le due personalità che per buona parte della sua carriera lo affiancheranno nella produzione dei progetti, Yuchihiro Saito, e nella scrittura degli stessi, Satoko Okudera. Nel 2006, la casa di produzione pubblica La Ragazza che Saltava nel Tempo, film diretto da Hosoda e scritto da Okudera che traspone in chiave animata il romanzo omonimo di Yasutaka Tsutsui cercando, forzatamente, di rinnovare l'intreccio originale ambientando la storia nel Giappone odierno [1]. In seguito al grande successo del suo primo lungometraggio originale, Hosoda decide assieme a Okudera di creare un'opera che rispecchi finalmente i lati più personali del regista e che, soprattutto, sviluppi in un'arte individuale e riconoscibile un racconto del tutto ex novo. Nasce così Summer Wars (2009), film che per la prima volta riesce a condensare le sfaccettature sia grafiche e di design, sia narrative e concettuali di un artista che prima, durante una lunga e faticosa gavetta [2], aveva potuto soltanto tingere le proprie regie con elementi soggettivi e peculiari.
Il lungometraggio sviluppa, partendo dal retaggio di Digimon Adventure, due realtà che si interfacciano tramite una semplice dualità: un mondo reale ispirato a luoghi legati intimamente a Hosoda - che crea dunque le fondamenta formali della sua poetica come la famiglia, la difesa della propria terra, il morboso attaccamento alla vita - e un altro mondo, digitale e alternativo chiamato "OZ" - che plasma quindi l'altra parte importante della sua poetica autoriale, ovvero quella legata alle dimensioni astratte nelle quali poter rifuggire dai dolori, dalle difficoltà e dalle inquietudini della vita vera. Summer Wars soffre degli stessi problemi sostanziali de La Ragazza che Saltava nel Tempo, anche se, al contrario del film precedente, dal punto di vista tecnico riesce a rendere i movimenti dei personaggi piuttosto fluidi e con cali di key-frame meno evidenti. Il mondo digitale del lungometraggio si presenta curato e variegato, costruito in maniera certosina dai tecnici della Madhouse affinché la CG non stucchi nel momento in cui elementi complessi in 3D devono entrare in contatto con animazioni più tradizionali. Il lavoro estetico impiegato nella realizzazione di OZ, infatti, risulta incantevole e plasma un meta-verso che Hosoda riciclerà in Belle (2021) per poter spiegare in quale modo, secondo l'autore, si siano evoluti i networks nella nostra società durante questa ultima decade.
Ancora oggi, la potenza visiva di OZ si può intravedere nella sub-culture digitale legata alla musica elettronica sperimentale (bubblegum bass, hyper pop, deconstructed club, glitch pop) e sicuramente rispecchia in modo intelligente e autentico una visione futurista del World Wide Web ormai sempre più vicina ai giorni nostri.
Nel 2011, Mamoru Hosoda e il produttore Yuchihiro Saito, ormai indissolubile collaboratore del regista, decidono di staccarsi dalla Madhouse e di fondare una propria casa di produzione: lo Studio Chizu. Tale scissione non consegue alcun tipo di astio da parte dell'azienda per cui Hosoda e Saito avevano lavorato per molti anni, tanto che la Madhouse si propone subito di sostenere dal punto di vista esecutivo il primo progetto del neonato studio. Il "tandem" Hosoda & Okudera, prima di sciogliersi definitivamente, scrive la sceneggiatura del film che nel 2012 farà affermare in modo decisivo l'ormai risoluto regista nel panorama internazionale dell'animazione cinematografica: Wolf Children. Il nuovo lungometraggio risulta per Hosoda un notevole passo in avanti dal punto di vista narrativo, un'opera sentimentale che, attingendo in maniera importante alla poetica di Hayao Miyazaki e dalle scenografie bucoliche di Kazuo Oga, riesce a plasmare un racconto genuino e commovente, simbiotico nell'esprimere la crescita dell'umano unita alla figura naturale - quasi puramente naturalistica - della bestia.
Wolf Children manifesta il lato più drammatico della poetica di Hosoda, una forza emotiva che le opere precedenti del regista avevano soltanto accennato. I personaggi del lungometraggio risultano finalmente caratterizzati in maniera discreta, complice soprattutto l'influenza di Miyazaki, e sviluppano un intreccio che, senza forzare troppo le scene volutamente "strappalacrime", punta a generare empatia durante tutta la visione del film. Mamoru Hosoda e Satoko Okudera, prima di questo film, erano riusciti a donare spessore soltanto a identità anziane e caratterialmente forti come la bisnonna in Summer Wars, ancora oggi protagonista di alcune delle sequenze migliori della carriera del regista. In Wolf Children, invece, quasi tutti i personaggi, tranne qualche comparsa pressoché inutile, godono di una qualità dinamica della caratterizzazione e, quando statici e perentori, risultano comunque - anche soltanto per una singola scena - accattivanti o carismatici. Inoltre, lo Studio Chizu e la Madhouse plasmano insieme un lungometraggio nel quale il character design volutamente scarno di Hosoda e di Yoshiyuki Sadamoto, co-autore dei design del regista dai tempi de La Ragazza che Saltava nel Tempo, riesce a integrarsi senza stridere troppo visivamente con le ambientazioni puntuali e realistiche dell'opera.
In definitiva, Wolf Children aumenta sia la visibilità, sia lo spessore artistico di Hosoda e riesce a lanciare il nuovo Studio Chizu tra le case di produzione più interessanti dell'animazione cinematografica giapponese.
Nel 2015 esce The Boy and the Beast, secondo film dello Studio Chizu e prima opera interamente scritta da Hosoda. Il regista decide di sviluppare il concetto di bestia introdotto in Wolf Children attraverso un approfondimento degli obake (o bakemono), una classe di yokai di natura preternaturale [3] appartenente al folklore giapponese. I rapporti tra i personaggi dell'opera e, in generale, le qualità di Hosoda come scrittore migliorano sensibilmente. L'artista, infatti, con The Boy and the Beast riesce a narrare in modo originale un saggio racconto di formazione che cambia più volte il classico legame bilaterale che unisce spiritualmente figure come "il maestro" e "l'allievo". Il lungometraggio, tuttavia, anche se si perde sul finale per via di una smaccata pretenziosità da parte del regista, prova a rendere esteticamente sbalorditivi per esempio le balene, animali amati da Hosoda e citati in quasi tutti i suoi film come divinità protettrici, e altri elementi naturalistici creati in CG, spesso risultando acerbo per potersi permettere trovate tecniche "alla Bird" o "alla Oshii" come movimenti di macchina, carrelli, zoom animati o anche solo armoniose implementazioni 3D nel 2D.
Tecnicamente, quindi, The Boy and the Beast soffre di alcune grosse ingenuità, ma in ogni caso rappresenta la volontà di Hosoda e dello Studio Chizu di sperimentare e di andare fuori dalla propria comfort zone di matrice digimoniana o miyazakiana.
Tale consapevolezza spinge il regista a realizzare quello che tuttora rappresenta il suo maggior disastro autoriale e artistico, film consacrato con la prima nomination di un film d'animazione orientale non prodotto dallo Studio Ghibli agli Academy Awards: Mirai (2018). Mamoru Hosoda decide di ampliare la sua poetica approfondendo il complesso tema della famiglia, sviscerato a livello macroscopico in Summer Wars e a livello di nucleo socio-ambientale in Wolf Children. Mirai, invece, affronta con gli occhi di un bambino il trauma della nascita di una sorellina minore, evento catastrofico che scuote la psiche del protagonista, bambino che infatti si accorge presto di non essere più la assoluta priorità dei suoi genitori. Se ciò, dal punto di vista pedagogico, riflette effettivamente come davvero molti primogeniti vivono l'arrivo in casa di un secondogenito, dal punto di vista cinematografico il lungometraggio si presenta di una pesantezza quasi insostenibile, strutturalmente sbagliato e con seri problemi di sceneggiatura legati al montaggio delle sequenze: ovvero a che cosa accade nelle scene, come e quando.
Hosoda centra solo il punto cardine del racconto, ovvero l'accettazione e la crescita infantile, ma rovina ogni altra possibile singolarità della trama creando identità di un incredibile anonimato, intere scene ininfluenti per lo sviluppo dell'intreccio e situazioni imbarazzanti nelle quali si dà al piccolo protagonista una profondità semplicemente ingestibile. Il personaggio principale, infatti, rispecchia o un infante tipicamente giapponese inserito in un contesto estraneo alla sua stessa cultura di riferimento, o una personalità molto particolare nata - secondo Hosoda - senza poter esternare alcuna azione realmente motivata. In entrambi i casi, proprio il protagonista di Mirai rappresenta forse il punto più basso raggiunto da un autore d'animazione giapponese negli ultimi cinque anni. Il regista sicuramente ha voluto plasmare un racconto che lo unisse alla propria figlia, infatti la sua vita da padre lo ha portato e lo porta tuttora a decodificare situazioni seguendo i discorsi e le emozioni che, dal punto di vista umano, manifestano lui e la figlia nelle sue opere attraverso un sistema di parallelismi e di metafore visive nemmeno tanto originale. Tuttavia, per quanto comprensibile si possa presentare un film come Mirai, il risultato è del tutto sconfortante.
Partendo proprio da una preoccupazione personale verso sua figlia [4] e rispolverando le visioni di OZ di Summer Wars, il regista decide immediatamente dopo aver pubblicato Mirai di scrivere e di dirigere una fiaba dell'era digitale, prendendo solo come lontano riferimento il racconto La Bella e La Bestia (1740) e plasmando un mondo alternativo del tutto nuovo: la realtà di U.
Per quanto concerne Belle (2021), di seguito allego la recensione scritta su filmtv.it il 20 marzo 2022, un lungo commento informale che tuttavia collega in modo esaustivo ogni punto saliente dell'analisi su Hosoda portata avanti da Le origini di Mamoru Hosoda [5] a questo articolo.
Fin dal primo rilascio dei teaser, Belle mi era parso come un potenziale punto di arrivo nel percorso artistico di Mamoru Hosoda; la summa del lavoro autoriale di un artista che fino a Mirai non era mai riuscito a esprimere al 100% tematiche esterne al calderone comune che in parte appiattisce da ormai dieci/quindici anni la maggior parte delle produzioni cinematografiche animate in Giappone. Hosoda è un allievo riconosciuto di Hayao Miyazaki, nel 2002 stava infatti dirigendo i lavori in corso de Il Castello Errante di Howl prima di essere licenziato per "divergenze artistiche con i superiori". I suoi primi successi, tolti i lavori spin-off prodotti dalla Toei (da One Piece a Digimon, il suo punto zero autoriale da cui poi svilupperà il mondo digitale di Summer Wars e, in parte, quello digitale/alternativo proprio di Belle), esprimono in maniera poco raffinata e poco puntuale una poetica che tra La Ragazza che Saltava nel Tempo (2006) e Summer Wars (2009) compie tuttavia dei passi da gigante dal punto di vista concettuale. Se La Ragazza che Saltava nel Tempo racchiudeva in un'ora e mezza una trama riciclata da un romanzo di formazione nipponico (1965, Yasutaka Tsutsui) e non riusciva dunque a portare la storia nell'era attuale senza semplificarne il racconto, i personaggi e il contesto socio-politico, con Summer Wars Hosoda progetta per la prima volta ciò che poi caratterizzerà davvero la sua, piuttosto prolifica, produzione cinematografica.
I cardini della poetica di Summer Wars e di Hosoda sono la famiglia, intesa spesso come nucleo familiare esteso (quindi nonni, zii, cugini ecc), il sacrificio (espresso in modo piuttosto spicciolo confronto altri autori giapponesi d'animazione) e il rapporto tra dimensione immaginaria e dimensione reale del mondo. Gli universi di Hosoda si stratificano attraverso dualità semplici: digitale/terreno in Summer Wars, urbano/rurale in Wolf Children (2012, primo film prodotto dal proprio studio Chizu e film più dedito alla poetica del maestro Miyazaki), immaginario-mostruoso/cittadino-umano di The Boy and the Beast (2015), adulto-concreto/infantile-fantasmatico in Mirai (2018) e di nuovo digitale/terreno in Belle (2021). I rapporti tra i mondi di Summer Wars e di Belle, tuttavia, sono assai diversi. Belle mette in scena una realtà alternativa che si avvicina molto a un social network del futuro, in cui l'applicazione scannerizza circuiti neuronali del soggetto, ne duplica i sensi e le percezioni corporee e crea a tutti gli effetti un alter-ego in bit (Digimon?), mentre Summer Wars ragiona più sui network aziendali e sui videogiochi in cui una persona si crea un avatar sostanzialmente per vivere dei giochi di ruolo. Belle quindi si avvicina molto di più a un pubblico mainstream anche soltanto mostrando agli spettatori una possibile proiezione futura dei social di oggi (vedi il recente "metaverso" di Facebook) e, dunque, Hosoda con questa sua ultima fatica lancia un amo molto accattivante nel mare di un pubblico generalista che, infatti, sta apprezzando l'opera bene o male in tutto il mondo dall'estate del 2021 ad oggi.
[...] Il film gode di alcuni punti di forza che non vedevo dai tempi di The Boy and the Beast, tuttora assieme a Wolf Children il miglior film del regista. Innanzitutto, la trama rispecchia in modo autentico la carica emozionale che Hosoda vuole - e riesce! - a trasmettere senza forzare troppo la mano su situazioni lacrimevoli. L'artista da sempre punta molto, forse tutto, sull'aspetto emozionale delle proprie opere, e la maggior parte delle volte la forzatura risulta visibile e stucchevole. Belle non è esente da ciò, tuttavia riesce in più situazioni a rendersi commovente e, soprattutto, genuinamente emozionante. Il background della protagonista viene spiegato abbastanza bene (concetto non scontato nei film dell'autore), mentre i personaggi secondari risultano ancora dopo anni e anni da La Ragazza che Saltava nel Tempo delle macchiette pressoché inutili inserite nel contesto e nella trama per dare fiato a dialoghi a volte interessanti, a volte completamente non necessari. La qualità della caratterizzazione della maggior parte dei personaggi di Hosoda, infatti, risulta spesso pari a quella delle comparse e, purtroppo, ciò si ripete in Belle come in ogni altro suo film precedente. Tranne poche identità realmente utili, la maggior parte di esse rotea attorno alla protagonista cercando di aiutarla negli ostacoli che deve affrontare, nelle difficoltà personali e inter-personali che deve superare, sempre però sussurrandole o mormorandole "consigli" in maniera non significativa e aspettando sempre che questa, anche se in preda al panico, reagisca da sola.
Questo è il metodo di resilienza che sono certo vada per la maggiore in Giappone, ovvero lasciare isolate le persone anche se in visibile difficoltà perché non ci si sente a proprio agio nel voler impiccarsi troppo negli affari altrui. Ciò non lo reputo un punto negativo del film siccome è palese che si tratti di un distacco che io, visto il mio carattere e la mia professione di insegnante, vivo con particolare intensità. Per questo, anzi, bravo Hosoda che di sicuro sa come mettere in scena sequenze realistiche. Che poi esse piacciano o non piacciano agli occidentali più "calorosi" dei giapponesi credo che gliene importi ben poco, giustamente.
La regia posso asserire, dopo due visioni in sala - una delle quali in religioso silenzio perché praticamente da solo (quanto è bello andare al cinema di pomeriggio!) - , che sia una delle migliori della carriera di Hosoda. Le schifezze giostrate in Mirai sono fortunatamente sparite, i primi piani sul moccolo dei bambini si sono fatti meno appariscenti, i piani sequenza registrati nel mondo di U (quello alternativo) migliorano sensibilmente gli esperimenti in CGI adottati in The Boy and the Beast, le "zoommate" incredibilmente definite per immergere lo spettatore nelle sensazioni più viscerali dei personaggi principali risultano intense al pari di quelle che nel 2012 avevano fatto sciogliere come burro al sole metà di quelli che avevano visto Wolf Children.
Tecnicamente il film non è né un capolavoro (ci vorranno anni prima che la CG in Giappone arrivi a dei livelli anche solo decenti per un pubblico occidentale come il nostro cresciuto a pane e Pixar), né un disastro. Si coglie dopo un secondo la natura artefatta, "plasticosa", sintetica di ogni modello (sia ambientale che dei personaggi) costruito nel mondo di U ma ciò viene intelligentemente mascherato poiché si tratta effettivamente di un mondo digitale (scusa un po' da "gatto che si arrampica sulle vetrate" ma per me può reggere). La riuscita tecnica del film, infatti, non si ritrova certo nella definizione delle texture o nei livelli di lighting e shading dei modelli e dell'ambiente, bensì nella coordinazione dei piani d'immagine che lo Studio Chizu di Hosoda (con il sostegno di studi ausiliari e di aziende cooperanti) è riuscito a mettere in scena vista la mole pazzesca di elementi su schermo presente durante le sequenze corali più complesse. Forse, da questo punto di vista, la Madhouse era riuscita a portare a casa un risultato ancora più ottimale con Summer Wars, quando ancora Hosoda non aveva una propria casa di produzione, tuttavia se Evangelion 3.0+1.0 mi risultava sufficiente (tranne qualche palazzo generato su AutoCAD che per l'amor del cielo) non vedo perché parlare male di Belle.
Il film si può tranquillamente ritenere la prima opera musicale di Hosoda. Il lungometraggio non è un musical ma le canzoni della protagonista forgiano in tutto e per tutto i segmenti più importanti di trama, perciò il loro peso diventa di primo ordine nella valutazione dell'opera.
Sopra qualsiasi mia aspettativa, l'alternative-pop messo in gioco nel film funziona benissimo e i brani riescono a incanalare l'atmosfera a volte sospesa, a volte malinconica, a volte epica e struggente del film in testi credibili e in musiche fortemente espressive. Niente di eccezionale, ma visto l'andazzo degli ultimi anni nelle produzioni giapponesi mi aspettavo canzoni orribili strutturate come sigle di apertura/chiusura di un anime "x". Gli artisti - tra canto e arrangiamenti - hanno invece creato delle musiche che ben si sposano con tutto l'apparato estetico e concettuale dell'opera di Hosoda.
Ps: menziono giusto un attimo il labiale di Belle mentre canta; so che è una piccolezza e so per certo che da animare è un incubo, però potevano farlo un po' meglio.
A livello di profondità di trama siamo sui livelli di Wolf Children e di The Boy and the Beast, quindi buoni con non troppe pretese. Il montaggio dell'opera non aiuta ad approfondire alcuna tematica e forza alcuni passaggi logici tra il mondo reale e quello di U (dopo due visioni sono arrivato alla conclusione che sia una scelta ponderata dall'autore visto che non viene mai esplicitata una data, una tempistica, un metro di misura temporale nel mondo di U, come a voler significare la profonda aleatorietà della dimensione digitale rispetto a quella materiale), inoltre, il film cerca di mettere carne al fuoco inserendo lutto familiare, abuso domestico, isolamento sociale all'interno della trama, ma il risultato finisce per essere un gran minestrone bollente che sa di poco.
Hosoda forza il suo voler essere autoriale (anche se qui fa comunque molto meglio rispetto allo scempio psicopedagogico di Mirai) per via di scelte sbagliate di focus narrativo. Sarebbe stato meglio tagliare qualche personaggio inutile, qualche scena riempitiva (ce ne sono una infinità e di durata spropositata) e focalizzare il racconto sui ragazzini abusati e sul passato della protagonista (nel film presente in modo sufficiente ma solo e soltanto attraverso brevi flashback di pochi minuti) per dare la giusta importanza alle nobili tematiche che il film cerca di esporre. Belle, invece, transita troppo velocemente dal melodramma al dramma senza trovare un giusto equilibrio tra le parti, tra i generi, tra le prospettive concettuali che vuole far percepire a chi le osserva. In definitiva, dunque, risulta un teatro un po' sconclusionato ma animato da buoni e reali sentimenti; una tavola imbandita dove si alternano portate succulente e dall'aspetto piacevole, cibi che però, ingeriti uno in seguito all'altro senza una pausa, portano la pancia (e la testa) a provare un contenuto senso di confusione.
Isaia Silvano [ filmtv.it ], 20/03/2022
Mamoru Hosoda, in conclusione, condensa la sua filmografia in uno spettacolo tanto pirotecnico quanto denso di (troppi) elementi, ma in ogni caso Belle riesce a trasmettere a livello emotivo tutta la potenza sentimentale che il regista innesta nella messa in scena.
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APPROFONDIMENTI
[1] [2] [5] Silvano, Isaia (2021). La Ragazza che Saltava nel Tempo: le origini di Mamoru Hosoda. Animazione Orientale. daelaranimation.com