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  • Immagine del redattoreAndrea Tornese | Collaboratore

Miyazaki e l'industria anime: accordi e disaccordi

Ogni volta che Hayao Miyazaki, nel corso degli anni, è stato chiamato a esprimersi su questioni inerenti all'industria televisiva e cinematografica giapponese, il suo giudizio è sempre stato severo e decisamente netto. Al di là delle polarizzazioni e delle fazioni, è interessante - nonché legittimo - porsi anche solo una domanda per poter capire da dove possa sorgere questa sorta di "astio" per gli anime di cui il maestro è stato e viene tuttora tacciato: è quindi vero che Miyazaki li odia? È in effetti da decenni che il regista afferma di avere un rapporto a dir poco particolare con l'industria dell'animazione. Ciò che molti notano è come il rapporto tra lui e l'industria sia però controverso. Il regista critica infatti da sempre il mondo dell'animazione giapponese, accusandolo di una sorta di infantilismo, eppure spesso i suoi comportamenti a proposito risultano contraddittori - basti pensare all'immagine ormai impressa nella memoria di tutti di un Miyazaki, durante la produzione del suo Si Alza Il Vento (2013), che gioca come un bambino con gli aeroplanini assieme al regista di Neon Genesis Evangelion (1995) e Nadia - Il Mistero della Pietra Azzurra (1990), Hideaki Anno. Se, tuttavia, si vuole provare a rispondere a questa domanda è perché risulta interessante poter comprendere quali siano le sue critiche, a volte anche molto aspre, a un mondo così complesso e stratificato come quello dell'animazione giapponese, soprattutto alla luce del fatto che lo ha vissuto dall'interno per quasi sessant'anni, vedendone quindi da dentro tutte le fasi e le trasformazioni.



Hayao Miyazaki | Daelar Animation
© Artribune


Per inquadrare al meglio le parole di Miyazaki è importante capire che tali critiche sono, prima di tutto, di carattere tecnico e stilistico, e da queste analisi deriva poi un discorso più generale sullo stato dell'animazione giapponese da lui delineato. È infatti sin dalla prima metà degli anni '70 che il maestro si esprime in modo duro nei confronti degli anime - parola che egli stesso fatica ad adoperare e che ha in passato rifiutato - e anche di recente molte sue affermazioni hanno creato discussioni a tal proposito. Non c'è dubbio, infatti, che nel mettere alla berlina alcuni limiti della tecnica che ha fatto la fortuna di una grossa porzione dell'industria dell'intrattenimento nipponica, un autore di opere dallo stampo fine e ricercato come Principessa Mononoke (1997) e La Città Incantata (2001) sollevi questioni quantomeno che meritano un approfondimento.


Dove tutto ebbe inizio


Tra la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70, le principali emittenti televisive giapponesi hanno ben capito che le serie animate con le quali hanno sperimentato sono ormai un fenomeno in ascesa e così Fuji TV, in aggiunta alla necessità di riempire alcune fasce di palinsesto, commissiona a varie case di produzione la realizzazione di numerosi anime. Dopo alcuni anni nei quali il processo va avanti, nasce finalmente il World Masterpiece Theatre (WMT), che tuttavia assumerà questo nome solo nel 1979 [1].



Panda Go Panda! | Daelar Animation
© TMS Enterteinment


Nel 1974, era stato il successo di Heidi a convincere le emittenti a investire in un format televisivo che si basasse sui classici della letteratura per ragazzi e per l'infanzia, ma già qualche anno prima Miyazaki aveva provato, assieme al presidente della TMS Yutaka Fujioka, a recarsi in Svezia per conoscere Astrid Lindgren e per convincere la scrittrice a cedere loro i diritti sul personaggio Pippi Calzelunghe. All'epoca, Miyazaki e Isao Takahata, ancora giovani ma già da anni nel mondo dell'animazione, erano convinti che adattare Pippi potesse essere l'occasione per una svolta delle loro carriere. Tuttavia, quando la Lindgren non acconsente a cedere i diritti, e quindi Miyazaki comincia a scrivere il soggetto e la sceneggiatura di Panda! Go Panda! (1972) per Takahata (mediometraggio realizzato sul calco della protagonista dei racconti della scrittrice), è evidente che nella mente dell'artista sia ancora presente l'idea che animare Pippi Calzelunghe poteva risultare una scelta vincente. Nel 1974, infatti, il successo di Heidi gli darà le conferme che aveva cercato per tre anni. In effetti, se si pensa alla storia dell'animazione internazionale sino a quel punto, a posteriori il successo di Heidi non stupisce. Sin da quando l'animazione aveva fatto irruzione nel mondo delle arti d'espressione visive e figurative, era stato evidente come essa si prestasse perfettamente alla rappresentazione di storie con un target ben mirato, come il caso del romanzo di Johanna Spyri dimostra: gli adattamenti dei racconti folk tradizionali che stanno alle radici dell'animazione, come Le Mille e Una Notte (900 d.C./1400 d.C.) ne Le Avventure del Principe Achmed (1926), o i lavori della Walt Disney Productions degli anni '30, che non a caso traggono spesso ispirazione dalla favolistica tradizionale europea.



Heidi | Daelar Animation
© Nippon Animation


Sin dalle sue prime battute storiche, i grandi autori e interpreti dell'animazione intuiscono dunque che con essa si presti alla perfezione, sia tecnicamente che dal punto di vista espressivo, la messa in scena della fiaba e del racconto di formazione. Per Hayao Miyazaki - parere dichiarato molti anni dopo - l'errore più grande di Osamu Tezuka negli anni '60 con la sua Mushi Pro sarebbe stato infatti quello di "scimmiottare" Walt Disney, rinunciando quindi a voler trovare una propria identità nell'animazione [2]. L'identità, per un autore come Miyazaki, è il concetto più importante di tutti e, in questo senso, Heidi di Isao Takahata e il nascente WMT rappresentano quindi la quadratura del cerchio per l'artista dopo oltre dieci anni di lavoro nell'industria dell'animazione: adattare grandi classici della letteratura per ragazzi e per l'infanzia è il modo perfetto per evidenziare al meglio le qualità espressive dell'animazione così come le intende lui, ovvero sulla base di quelle che sono le sue ricerche e sperimentazioni nel campo tecnico di questa forma d'arte. La ricerca di tale qualità, per Hayao Miyazaki, sarà tuttavia un'operazione lunghissima nel tempo: dopo l'uscita nei cinema di Principessa Mononoke, nel 1997, il regista rivelerà infatti che durante i suoi primi anni di lavoro spesso si rendeva conto che vi era un forte ostacolo, un gap, tra ciò che voleva esprimere e la sua effettiva abilità nell'attuare le proprie idee [3]. Nel momento in cui nasce, il WMT stabilisce alcuni paletti da dover rispettare e attorno ai quali poter costruire gli adattamenti, tuttavia, al di fuori degli aspetti narrativi, è la dimensione tecnica ed espressiva a forgiare l'estetica di quell'animazione.



Heidi | Daelar Animation
© Nippon Animation


I canoni all'interno dei quali si sviluppa il WMT, che segnano gli anni di attività di Takahata, di Miyazaki e del designer Yoichi Kotabe, cambieranno infatti l'animazione per sempre. In particolare sono due gli elementi più incisivi: la nascita del Meisaku e la formulazione di un immaginario visivo coerente. Con il termine Meisaku ci si riferisce al metodo di animazione che nasce in questo contesto, caratterizzato dalla estrema cura del dettaglio, dal tentativo di riprodurre fedelmente la verosimiglianza delle azioni e delle espressioni visive, dalla grazia raffigurata tramite l'esecuzione tecnica delle animazioni [4]. "Prima del 1963, lo stile d'animazione era molto più simile ai libri illustrati per bambini" ricorda Miyazaki [5], ma con il boom produttivo di case come Toei Doga (la futura Toei Animation) e Mushi Production anche lo stile è naturalmente cambiato. A ciò si uniscono budget e tempi di produzione sempre più risicati, che comportano dunque un numero minore di disegni utilizzati per animare i vari frame. Va inoltre considerato che spesso, soprattutto negli anni '60, anche le grandi case di produzione erano formate da staff di giovanissimi animatori ancora inesperti, e questo si traduceva in prodotti di scarsa qualità e con poca revisione tecnica. Tale trend continuerà fino agli inizi degli anni '70, almeno in linea generale: costi contenuti e numero sempre crescente di prodotti. Ma con il WMT e il successo commerciale di Heidi, l'ambiente comincia a cambiare. La cura nel dettaglio è tale da essere riposta non solo nell'animazione in sé, ma anche in una sempre crescente attenzione nei layout e nelle diverse fasi di produzione.



Heidi | Daelar Animation
© Nippon Animation


Mentre dall'altra parte del mondo le più grandi scuole di animazione (seppur con budget molto più elevati e metodi lavorativi agli antipodi) sperimentano e codificano le regole principali di nuove tecniche animate, e mentre un certo tipo di animazione in Giappone si forma sulla base dello stile Meisaku, a tutto ciò, sempre nel "Paese del Sol Levante", si contrappone un altro modo di animare, metodo che prende sempre più piede: il cosiddetto super deformed. Tale stile si basa proprio sull'accentuazione dell'espressività e sull'esagerazione delle proporzioni fisiche. È nei confronti di questo stile che Miyazaki comincia a nutrire un certo astio, arrivando a coniare la definizione di "sovra-espressionismo" degli anime [6]. Per il regista, l'errore tecnico commesso dagli animatori che operano in questa maniera è duplice. Da una parte si tratta di un errore di adattamento: secondo Miyazaki, infatti, esagerare le espressioni facciali e le proporzioni corporee per esprimere un sentimento corrisponde ad applicare una regola tipica del linguaggio del fumetto all'animazione, e denota quindi una scarsa consapevolezza del mezzo; dall'altra parte la sua critica viene rivolta a una certa "accidia" riprodotta da questo tipo di animazione, troppo pigro per produrre qualcosa di davvero buono. E qui si arriva infatti alla più grande critica che Hayao Miyazaki abbia mai rivolto al mondo degli anime, critica diretta tanto ai fruitori quanto ai suoi interpreti. Il regista afferma che il maggior problema dell'industria dell'animazione giapponese è il fatto che l'ambiente di lavoro sia popolato interamente da otaku.



Hayao Miyazaki | Daelar Animation
© Dwango | © Toho


A suo dire, questa diventa una difficoltà perché gli "animatori otaku", come li ha definiti in passato, non hanno la capacità di osservare ciò che è reale, ma si limitano a riprodurne o a immaginarne il preconcetto. Secondo quanto raccontato da Hayao Miyazaki, all'epoca alcuni critici paventavano la possibilità che ciò portasse a una nuova corrente animata, parlando di un'età dell'animazione "limitata" orientale. La loro teoria era che troppe enfasi sul movimento e sull'animazione avrebbero persino distratto dal focus del racconto. Contro tale corrente di critica occidentale, il regista non faceva quindi che ribadire il suo forte principio: se non pensi costantemente alla tua animazione, non puoi chiamarti un animatore. Si tratta esattamente del problema che stava rimproverando in una grossissima porzione dell'industria già tempo prima. La principale conseguenza che questo metodo di animare ha avuto nel settore dell'animazione giapponese è che esso è diventato prima una regola nell'ambiente tecnico-lavorativo e, successivamente, si è imposto come un vero canone espressivo. Per Miyazaki, tuttavia, la qualità numero uno di un animatore - e di un narratore più in generale - resta il saper osservare, azione che non può riuscire se non si guarda il mondo reale.


Indubbiamente non si può non notare una certa falla nelle parole di Miyazaki, che addita gli otaku di essere incapaci di osservare, salvo poi considerare uno dei più grandi auto-proclamati autori-otaku, il regista Hideaki Anno, il suo principale protetto. Il problema di fondo, per l'autore, è che l'animazione giapponese è ormai costituita da persone che non sono interessate agli altri e alle storie altrui, bensì solo a sé stesse.



Hayao Miyazaki | Isao Takahata | Daelar Animation
© Cinematographe.it


Un autore è un osservatore, e un osservatore sarà sempre portato a imitare ciò che vede, e a reinterpretarlo a modo suo. È un principio che ha anche a che vedere con la tradizione alla quale si appartiene e che si cerca di tramandare, di evolvere, ed è esattamente quello che Miyazaki e Takahata hanno attuato creando le fondamenta del World Masterpiece Theatre. Basta guardare infatti anche solo i character design di Heidi e delle altre prime opere del WMT, creati soprattutto da Yoichi Kotabe, per potersi rendere conto che i lungometraggi di Miyazaki saranno in pratica la conseguenza di ciò che il regista apprende negli anni '70 [7].


Un immaginario convincente


Una delle caratteristiche che guida le scelte stilistiche degli autori formati con il WMT è quella di una ricerca estetica e delle ambientazioni fortemente influenzata all'Europa raccontata nei romanzi trasposti in questo gruppo di anime. I racconti di riferimento appartengono a una letteratura che, oltre a essere accomunata per tematiche, lo è anche dal punto di vista del setting: i soggetti sono spesso ambientati in Europa, tra il XIX e la prima metà del XX secolo. I mondi ritratti sono quindi sempre simili tra loro, e a ciò va aggiunta la grande suggestione e impressione fatta a Miyazaki da Stoccolma e Visby, città che nei primi '70 ne segnano per sempre l'immaginario visivo.



Conan Il Ragazzo del Futuro | Daelar Animation
© Nippon Animation


A una ricerca architettonica che idealizza il Vecchio Continente segue, per Miyazaki, il fascino per i mecha, derivato ovviamente dalla sua passione per l'aviazione. La domanda che sin da subito si pone l'autore è: qual è il modo migliore con cui poter rappresentare una tecnologia di stampo europeo di fine Ottocento? In quel momento, mentre alcuni dei suoi illustri colleghi creano Daitarn 3 (1978) e Gundam (1979), Miyazaki predilige un mecha design più spartano e lineare, stile, riconoscibile già nella serie Conan Il Ragazzo del Futuro (1978), di derivazione francese e belga - in particolare dei fumettisti Hergé e Jean Giraud, in arte Moebius. Si riscontra, infatti, un aspetto artigianale dell'animazione che il regista vuole enfatizzare. Così, mentre per gran parte del settore animato la tecnologia ritratta è il veicolo dell'azione, Miyazaki fa diventare i suoi artifici e i suoi velivoli l'oggetto di analisi dell'opera: i suoi personaggi non salgono in testa a robot armati o a idrovolanti solo per combattere fra di loro ma, di questi prodigi della meccanica, l'autore preferisce sottolineare il lato industrioso e ingegnoso, come per esempio l'officina Piccolo di Porco Rosso (1992) e lo studio ingegneristico di Horikoshi in Si Alza Il Vento.


Insomma, risulta chiara una cosa: l'elemento più affascinante della personalità di Miyazaki è senza dubbio il suo carattere contraddittorio e, alle volte, ottuso. Ciò però non vuol dire che molte delle questioni da lui sollevate non possano fornire uno spunto per poter capire bene quali siano i limiti (e quindi le possibilità) dell'animazione giapponese odierna.


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APPROFONDIMENTI



[2] [3] [5] [6] Miyazaki, Hayao (2009). Starting Point (1979-1996). San Francisco. Viz Media.


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